Torno a scrivere dopo questa esperienza, ormai non parlo più di 10 anni fa ma parlo di qualche giorno fa. Il collega fastidioso, dispettoso, molesto. Tutto parte dal fatto che dopo essere andata in bagno in ufficio e quindi essermi assentata per 5 o 10 minuti trovo il computer con la login aperta e un pin sbagliato digitato. Cosa vuol dire? Io non posso lasciare il computer con la login e il PIN digitato perché blocco il computer quando mi allontano quindi la login è stata attivata e il PIN sbagliato digitato da altri.
Mistero
nessuno si è accorto di niente quando lo chiedo.
Torno a casa, apro la borsa per controllare di avere le pastiglie antiepilettiche da prendere a pranzo e un blister è in un posto che io di solito non uso per le pastiglie.
Chi ha messo mano alla mia borsa che ho lasciato sul tavolo quando sono andata in bagno e quando sono andata in mensa?Premetto che tutti i colleghi lasciano le loro borse sulla scrivania, nessuno le porta in mensa e tantomeno in bagno.
A casa rifaccio la borsa per mettere in ordine il suo contenuto , apro la tasca delle famose pastiglie e i blister sono stati aperti con le pastiglie sparse all’interno della tasca della borsa.
Ma allora qualcuno ha veramente messo le mani nella mia borsa! E ha toccato le mie pastiglie! Quando mi allontano dalla scrivania qualcuno tocca le mie cose,il computer la borsa! ma nessuno ha visto niente quando chiedo. Mi dico “bisogna avere dei seri problemi di mente per fare una cosa del genere che senso ha? “
Chi segue sa che ho fatto della resilienza il mio stendardo. C’è un aspetto che non ho ancora discusso, forse perché psicologicamente mi ripugna parlarne.
La prima forma di discriminazione è umiliare il disabile. Da chiunque venga qualsiasi forma di umiliazione è difficile farla scivolare addosso. Perché entra nelle ossa e si accumula diventando un fardello.
La prima volta che fui umiliata fu nel corridoio dell’ ospedale. Mi sedetti a fianco ad un uomo anziano che vedendomi sulla carrozzina e con un tutore al braccio mi disse:
“ma cosa te ne fai di gambe e braccia così, tagliatele!”
Io ingoiai il rospo e risposi che mi servivano e me ne andai.
Fu l’ inizio di una lunga serie, i peggiori erano gli anziani. Sempre in ospedale un signore malfermo sulle gambe finge di correre e mi dice:
“facciamo una corsa?”
…
Di nuovo in ospedale… mi faccio portare un’ agendina. In ospedale si perde la cognizione del tempo, penso che potrei contare i giorni così e magari scrivere le terapie che avrei fatto. Un’ infermiera se ne accorge:
” cosa fai scrivi i tuoi appuntamenti o i clisteri?” E ridacchia ammiccando alle colleghe.
…
Durante il mio lungo ricovero ad un certo punto mi viene voglia di truccarmi un po’ e di vestirmi con dei jeans e una t-shirt un po’ carina. Sono mesi che indosso solo pigiami e tute.
Mi trucco davanti ad uno specchio da tavolo con un’ ombretto viola, colore che risalta i verde dei miei occhi e metto del mascara, ho un lucidalabbra per completare il tutto e una spruzzata di profumo. Aggiungo un paio di orecchini.
Mi vengono a trovare e notano il cambiamento:
” come ti sei truccata? Sembra che hai preso un pugno nell’occhio!”
” hai gli orecchini per far vedere che sei femmina?” ( Ero ancora rasata e anche se i capelli stavano ricrescendo erano cortissimi)
…
Sono con la logopedista e parliamo di lavoro e della mia intenzione di riprendere a lavorare:
” ma tu credi di essere in grado di lavorare?”
….
Sono con mio padre e devo andare a fare fisioterapia in un centro privato. Devo andare in auto, non è vicino a casa, mio padre non ha voglia di prendere l’auto e cercare posteggio, insiste a prendere il treno e poi l’autobus, io dico che non sono in grado di farlo ( ancora ora non posso prendere i mezzi pubblici se non i taxi):
” tu non cammini, sei un’ handicappato, non capisci il peso che sei?”
…
Sono al lavoro il mio capo mi convoca e mi dice” tu non mangerai più in mensa con noi, ma da sola in ufficio, sei capace a mangiare da sola?”
” sì ” rispondo.
Lei continua” ho preso un piattino dalla mensa per provare, d’ora in poi trova qualcuno che ti porti alla scrivania un piatto dalla mensa”
Mi mette il piatto sotto il naso e io comincio a mangiare, attrice contro la mia volontà di un numero da circo intitolato ” guarda lo storpio come mangia”.
…
Finisco il boccone più amaro della mia vita “Sei capace, bene, d’ora in poi non ti dovremo più accompagnare in mensa mangerai da sola qui’, conclude.
Ha occhi crudeli, lo sguardo che sembra quello di un ratto che sta per darti un morso.
Sono nel cortile della nuova casa, sto cercando di raggiungere il portone, sento ridere dietro di me. Mi volto cercando di non cadere.
Ci sono un paio di ragazzini che imitano come cammino e ne ridono. Si accorgono di essere stati visti e corrono via. Raggiungo il portone e mi metto a piangere.
Ho saputo della tua metastasi, del tentativo di trapianto di midollo, della tua battaglia e la tua morte. Sei stato mio collega nel mio primo lavoro durato meno di un anno, coinciso col mio ictus, il lavoro che ho prontamente perso dopo che era chiaro che sarei stata disabile per sempre.
Non avevo instaurato con te un rapporto particolare, un po’ perché lavoravi dalla sede di Firenze e lì vivevi mentre io ero a Genova dove vivo ancora. Ti ho visto nei nostri uffici qualche volta quando volevi parlare con l’amministratore delegato di cui avresti voluto essere il delfino anche se senza molto successo perché gareggiavi con un altro collega molto più astuto e accanito di te. Eri un commerciale abbastanza in gamba. Condividemmo le mie prime trasferte. Anche se mi lasciavi da sola a parlare con i clienti, io con pochissima esperienza ma sicuramente molto volenterosa facevo spesso il tuo lavoro al posto tuo. Eri schivo e approfittavi della mia disponibilità. Non facemmo mai dei discorsi insieme né tanto meno una cena insieme. Mi stavi decisamente antipatico. Eri antipatico, insofferente, il tuo lavoro di commerciale ti lasciava poco tempo per la famiglia e la tua famiglia, tua moglie e i due figli ancora bambini soffrivano di questo. Facevi lunghe telefonate con loro e ti isolavi per parlare con loro.Forse per questo eri scostante e cercavi di lavorare meno lasciando a me le tue incombenze. Io ti giustivicavo per questo anche se ora capisco che non avrei dovuto. Insomma non fu una bella esperienza lavorare con te, piuttosto una gran fatica. Eri uno stronzo. Ebbi un ictus finii in coma e rimasi in ospedale per mesi soffrendo di una forzata clausura con la paura e tristezza del futuro inevitabile di disabile che mi attendeva. Non mi venisti mai a trovare, non mi telefonasti neppure una volta, mi mandasti i saluti per conto di altri colleghi.
Mi dispiace, ma questo è il ricordo che mi hai lasciato di te e voglio essere sincera anche se questo articolo di commiato non è commovente né lascia di te una bella immagine. La tua morte però mi lascia l’amaro in bocca. Con te se ne va un pezzetto del mio passato, quello della giovane ragazza normodotata che aveva successo in tutto ciò che faceva, che lasciava gli altri a bocca aperta perché bella, professionale e preparata. Un passato anche un po’ infelice nonostante questo, che da lato rimpiango e dall’ altro sono soddisfatta di aver abbandonato. Ma lascia amarezza vedere che si sta frantumando, pezzetti che mai più si potranno rimettere a posto per poterlo anche se nella fantasia riviverlo.
Tu eri uno di questi frammenti. Penso alla paura che devi aver provato prendendo consapevolezza del tuo destino e del fatto che avresti abbandonato ciò che avevi, amavi e sognavi.
Perciò ciao Giorgio, ci rincontreremo e mi aspetto che almeno mi paghi una cena per aver fatto il lavoro al posto tuo e non avermi mai aspettato con la macchina.
La tua foto che ti rispecchia, vanitoso e con quell’ aria professionale che mi provoca ancora antipatia. Sorrido a guardarla, è l’unica foto che hai messo sui social che non era nella tua personalità frequentare ovviamente. Ciao, mando questo sorriso fino da te.
Mia madre la filmava, morbosamente concentrata su di lei.
Mio padre mi si avvicina e mi dice con la voce roca che gli è ormai rimasta dopo la polmonite: ” mi dispiace”
Sono sorpresa (gli dispiace di cosa?)
” non credevo che farti fare il liceo classico sarebbe stato così frustrante per te: libri incomprensibili che non ti hanno fatto neppure aprire, nozioni sparse qua e là e un regime di estrema severità. Ti sei chiusa in casa giornate intere per studiare in questo modo. Ho scoperto leggendo i tuoi libri e quaderni che gli insegnanti non facevano lezione e pretendevano molto più di ciò che insegnavano, lasciandovi da soli. Credevo di darti l’opportunità di costruirti una cultura di alto livello”.
” sì.” Dico io: “papà a me non è rimasto nulla del liceo. Non ricordo quasi nulla, solo punizioni, insulti e prese in giro da parte dei docenti: ” Sei un cane!” ” Non sembra che leggi ma un prelato che prega” ” vergognatevi! Do perle ai porci!”
” era l’età più bella, che peccato” aggiunge mio padre.
” io volevo studiare arte, avevo la capacità innata di disegnare, dipingevo, decoravo e mi esaltavo di fronte a opere d’arte.”
” avevo un dono”.
E aggiungo: ” mi sarei dovuta imporre e fare il liceo artistico, come avevo scelto io, ma ero poco più di una bambina”.
” dopo il liceo artistico non ci sono sbocchi lavorativi, ho pensato anche a te”. Aggiunge anche mio padre.
” papà avrei insegnato, avrei potuto trasmettere agli altri questa mia passione, fare arte con gli altri e per gli altri.”dico io piuttosto sorpresa.
Mio padre rimane in silenzio.
Mi ha chiesto scusa, penso e quasi mi commuovo.
Poi però aggiunge: ” io quello che volevo fare con i tuoi libri l’ho fatto, volevo trovare l’interconnessione tra le lingue per vedere che tutte vengono da una radice comune, l’ indo- europeo.
Mi dispiace solo per te perché non era un buon liceo.”
Ecco, lo ha detto, ha confessato ciò che mi ha fatto.
ha creduto di morire ed ora si è lavato la coscienza.
L’ho perdonato ma non lo scuso.
no, perché ha sbagliato, mi ha lasciato torturare per cinque anni, soffrire per un’ occasione persa e una dote non sfruttata e sapeva di farlo.
Mio padre, 75 anni, ha preso una polmonite, come non si sa. incomincia a esserci la febbre il respiro è affannoso il dottore lo manda a fare i raggi in pronto soccorso, dai raggi non si vede niente e lo dimettono dal pronto soccorso, ma il dottore continua a sentire qualcosa nei polmoni, il battito cardiaco si alza, il dottore lo manda in farmacia a fare l’elettrocardiogramma, c’è una fibrillazione atriale. Mio padre va dal cardiologo, il cardiologo già da come cammina capisce che ha la polmonite. subito da un’eco al cuore vede che c’è del liquido nei polmoni e che il liquido è entrato nell’atrio del cuore, gli suggerisce di andare in ospedale subito, mio padre non vuole ma si fida del cardiologo e ci va. viene ricoverato in terapia intensiva, effettuano un pneumotorace e gli tolgono quasi un litro di liquido da un polmone, ne fanno un secondo per l’altro polmone e tolgono un altro litro ancora. 400 ml di liquido rimane. Resta in terapia intensiva per due settimane poi lo spostano nel reparto di cardiologia dove rimane un’altra settimana.
Mio padre, quello che mi ha costretto a rinunciare agli studi d’arte per seguire gli studi classici solo perché voleva studiare con me le lingue antiche seguendo il programma che facevo io a scuola e che non è mai riuscito a fare. l’uomo che ha sacrificato i miei sogni per perseguirne uno suo. L’uomo che ha sacrificato sua figlia per poter fare quello che lui non aveva fatto ma che gli sarebbe piaciuto fare.
Mi ha distrutto, mi ha trasformato in un qualcosa che non volevo essere, sono stata qualcuno di diverso, diversa da me.Ho finto per una vita. Ero poco più che una ragazzina a 13 anni, mi minacciava che non mi avrebbe mai supportato economicamente e psicologicamente che avrebbe ostacolato i miei studi. Mi ha detto che non sarei più stata sua figlia.
Ho sempre cercato di perdonarlo ma senza successo, non ci sono mai riuscita. Non c’era motivo di perdonarlo e lo incolpavo anche di questo, della mia incapacità di perdonarlo.
Ecco ho pianto, ho pianto per lui, “mio padre”, volevo stare ancora con lui “è il mio papà”, pensavo.
Ed il perdono è arrivato, una grande pena per una persona tanto frustrata, tanto da convogliare su una ragazzina le sue frustrazioni.
” ci sono i tuoi colleghi, sono venuti a trovarti” dice mia madre.
” che bello” penso io.
Era il mio primo lavoro di cui ero entusiasta ed i colleghi per me erano pari a degli amici. Il fatto che mi venissero a trovare era davvero un piacere e lo vedevo proprio come la visita da parte di amici.
Le visite continuarono, qualcuno più costantemente degli altri era presente nei weekend. Ne sono felice, sono la mia consolazione, mi trattano con affetto, non mi sento una disabile ospedalizzata quando ci sono loro.
” è sempre qui il tuo collega, perché?” Mi chiede mia mamma.
” ha piacere di venire a trovarmi. E io mi sento meno sola.”
” non sei sola ci siamo io e papà.”
” non è la stessa cosa” penso.
” vi hanno visti da soli all’ ora di pranzo, perché?” Chiede mia madre.
Conosco quel tono di voce, conosco quello sguardo,
la cosa non le va,
è infastidita,
se lei è infastidita, è contrariata,
se è contrariata sarà la guerra e lei non si arrenderà.
” mamma, sa che mangio da sola, voleva tenermi compagnia.” Dico io.
” si sta approfittando di te, non voglio che venga più”
” per quale motivo si dovrebbe approfittare di me, una disabile, su una sedia a rotelle, che vive in ospedale, rasata a zero, con un occhio più aperto dell’ altro e la bocca storta”. Penso.
La volta successiva lui se ne accorge, mia madre lo guarda male e lo allontana da me.
Mi viene da piangere. Paolo mi piace, mi piaceva già al lavoro, era in gamba, era gentile. Avevo avuto occasione di fare una trasferta di lavoro con lui. Stava al suo posto ( al contrario di altri, da cui avevo avuto avances sfacciate e dirette ma che ovviamente non vennero mai a trovarmi in ospedale né mi telefonarono).
” perché lo hai mandato via?” Chiedo a mia mamma.
” si vuole approfittare di te!”
” no! Non è vero!” Singhiozzo.
Non mi lascerà vederlo, non posso uscire, sono chiusa qui!
Voglio uscire, mi sento soffocare, il cuore batte a mille, la testa mi gira, mi sembra di morire.
Ho un attacco di panico.
Telefono: ” Paolo non puoi più venire a trovarmi, se potessi scapperei, ma non posso.”
” va bene stai calma non voglio crearti problemi soprattutto ora”
” telefonami quando vuoi, se vuoi, se puoi”
Ci lasciammo così, io mi calmai.
Ci telefonammo per mesi appena potevo, quando ero sola.
Uscii dall’ ospedale, tornai a casa dai miei genitori, non potevo più vivere da sola.
Non potevo vedere nessuno, solo qualche cena con un paio di amiche. Uscivo per fare terapie. Incominciai anche a non vedere più grandi miglioramenti nella fisioterapia. Era sempre più frustrante invece. Non ottenevo risultati, la mano era stretta a pugno, il ginocchio non si piegava, la caviglia non mi reggeva. Neanche con un bastone riuscivo a camminare da sola, mi dovevo sempre appoggiare a qualcuno. I miei genitori, gli unici con cui stavo insieme, mi umiliavano dicendomi che ero “una figlia che non sapeva neppure camminare”.
“Una figlia “
Andavo da una psicologa. Unico ricordo piacevole di quel periodo.
Non avevo lo spazio per telefonare, ci scrivevamo delle mail.
Poi trovai un lavoro ( un lavoro pessimo, quello di cui ho raccontato qualche articolo fa parlando della mia disabilità ed il lavoro).
Ero salva. Avevo dei colleghi,uno spazio in un open space, una scrivania. Pause pranzo e caffè delle macchinette. Di nuovo una quasi normalità.
” ci vediamo in pausa pranzo da te, con una scusa dico che non mangio in mensa e tarderò un pochino” ci mettiamo d’accordo.
Ci incontrammo.
Erano passati due anni.
Ci furono abbracci, ci fu il primo bacio, ci fu un sorriso.
Uscivamo insieme, i miei genitori non lo facevano entrare in casa quando veniva prendermi, facemmo qualche vacanza insieme, passò così un anno. I miei genitori mi ignoravano, la tensione si tagliava a fette.
” andiamo a vivere insieme” mi disse una volta mentre eravamo in macchina.
“!!”
Comprammo casa, vicino ai suoi parenti, era un modo per farci aiutare. Anche se io ero convinta fosse meglio comunque cavarcela da soli, ma capivo la preoccupazione.
Ovviamente non potevamo andare vicino ai miei parenti. La scelta fu obbligata.
ci furono i mobili da scegliere, i lavori da fare…me lo ricordo come un periodo indaffarato.
I miei genitori si chiusero nel mutismo.
Ma ero troppo indaffarata e in più avevo deciso di mettere a posto la mia caviglia con un’ operazione ai tendini. Ancora ospedale ma stavolta era diverso.
Grazie a quell’ operazione riesco a camminare senza cadere.
Ripubblico questo articolo che avevo già scritto tempo fa per raccontare la reazione dei miei genitori alla notizia delle mie dimissioni dall’ospedale. “Un sacco di problemi”, “un problema”. Così fui definita.
Da due o tre anni è stata aperta una lavanderia sotto casa. Appena aperto c’era un cartello con scritto a caratteri cubitali consegna e ritiro gratuiti. “Meraviglioso” penso.Per me la lavanderia è un cruccio perché non riesco a portare da sola i capi in lavanderia e una lavanderia che ritira a domicilio i capi d’abbigliamento e una volta pronti li consegna a domicilio per me è al pari di un miracolo. La provo, vedo che lavorano bene, il proprietario è un ragazzo abbastanza giovane e gentilissimo e i prezzi sono onesti. Per due anni usufruisco di questo servizio felice che funzioni bene. Quest’anno verso giugno chiamo la lavanderia e chiedo il ritiro di ben 8 capi a domicilio, il ragazzo che deve solo fare 100 metri per arrivare a casa mia mi dice “vengo subito a ritirarli”. Consegno allora i capi e mi dimentico di chiedere la ricevuta ( grave errore) che lui non mi fa. Passano i mesi, nessun avviso. devo partire per le vacanze verso luglio-agosto allora lo avverto per dire che se la mia roba fosse stata pronta io non sarei stata a casa.
Sempre molto gentilmente il ragazzo mi spiega che non è un problema perché sarebbe stato chiuso due settimane ad agosto e comunque mi avrebbe chiamato quando il tutto sarebbe stato pronto. Nessuna chiamata.
Arrivo alla fine di settembre e comincio a preoccuparmi, passo con mio marito davanti al negozio e vedo la serranda chiusa. Dopo qualche giorno ripassando davanti al negozio trovo un foglietto con scritto che l’attività stava chiudendo e solo in determinati giorni il negozio sarebbe stato aperto (tre giorni a settimana al mattino). Chiedo alla signora che mi aiuta in alcune commissioni e tiene pulita la casa di andare nei giorni disponibili a riprendere le cose ( temendo di non trovare più il negozio aperto).
Il ragazzo non consegna gli indumenti alla signora perché “lui consegna solo ai proprietari, i capi erano pronti e mercoledì potevano essere ritirati”
Lo chiamo per chiarire questo fatto. Io sono disabile e dato l’orario di apertura mio marito per causa del lavoro non può andare.
Non risponde.
Mando un messaggio WhatsApp.
Mi richiama. Bene, posso spiegare a voce di nuovo. Allora il tono della voce di questo personaggio cambia, non è gentile, urla , non mi lascia parlare accusandomi però a sua volta che io non lo lascio a parlare.
” mercoledì la signora che mi aiuta verrà a ritirare i capi e ripeto che sono disabile e non posso fare a meno di chiedere a lei e che al massimo posso scrivere una delega.
“i capi non ci sono tutti abbiamo un negozio in centro città, eventualmente può venire a prenderli lì”
” ma come la roba non è pronta, come faccio a venire in un altro negozio così lontano?” Dico. ( Vivo fuori città) e ripeto che sono disabile e per me è un disagio.
“lei non mi fa finire di parlare!” Urla
A questo punto la telefonata è diventata al pari di un programma televisivo di bassissimo livello a chi urla per primo. Io ho paura di una crisi epilettica.Chiudo la telefonata.
Sono quanti? 3 mesi circa che sono in ospedale, non posso uscire dalla stanza se non per andare negli ambulatori. Sono tre mesi che non vedo la luce del sole.
“ci hanno detto che dobbiamo parlare con lo psicologo ma non vogliamo” dice mio padre.
” si io lo vedo periodicamente, mi piace, mi sfogo con lui. Potrebbe aiutarvi, potrebbe aiutarmi” dico io.
” devi dirgli che va tutto bene con noi, che siamo bravi genitori, perfetti, così non ci convocherà più”. “Non dovremmo farlo se tu non fossi così”dice mio padre.
” se io non fossi così? Così come?” Penso e dico “lo psicologo mi aiuta, sto un po’ meglio da quando parlo con lui”.
” sei un handicappato grave, devi dire che siamo perfetti, che ti vogliamo bene e che vuoi stare con noi. Se non lo farai ti metteranno in un istituto per handicappati”.
“Starai sola, non credere che qualcuno verrà da te una volta lì “.
Mi viene da piangere.
Continuo a pensare:
” ma io sono tua figlia”.
Continuai ad incontrare lo psicologo, non fu necessario dire nulla o fingere alcunché, aveva capito perfettamente.
Luci bianche, odore di disinfettante e sudore, bip costanti, l’ aria e’ rarefatta, ho aperto gli occhi ma in realtà non so, li avevo chiusi prima? Non capisco, mi rivolgo alle prime persone che vedo.
” mamma…cosa è successo?”
” hai avuto un’ emorragia cerebrale”
” cosa??? E perché?”
” una fragilità capillare”
una fragilità capillare??”
” papà…non mi sento”
” sei paralizzata”
” paralizzata? No qualcosa muovo, vedi?”
” solo il braccio sinistro e la gamba sinistra sono paralizzati”
” i capelli…cosa è successo ai miei capelli?”
” non toccarti, sei ancora fasciata, hai i tubi dell’ alimentazione non toccarti!”
Non mi posso toccare.
Ho tubi dappertutto, sento il fastidio del catetere, la flebo e l’ago che punge, ho una sacca con un liquido giallastro sopra a me, è collegata a me con un altro tubo infilato nel collo, mi tira un po’ e pesa, credo che quella sia l’ alimentazione forzata. Ho tanta sete.
Ma comunque dove sono i miei capelli? Alzo leggermente la mano destra anche se non posso e sento una peluria morbida. Sono rasata! Mi hanno rasato! Dio mio ma cosa è successo? “Come farò, cosa succederà ora?” Penso.
Forse mia madre mi legge nel pensiero e mi dice:
“guarda lascia stare, eri una figlia perfetta!”
Ero una figlia.
Perfetta.
Passano le ore, i giorni, interminabili, mi cambiano le flebo, mi tolgono la sacca, mi imboccano, non posso bere, mi danno un surrogato dell’ acqua, mi lavano con delle salviette, ogni tanto cambio il pigiama, mi sento appiccicosa, una persona a metà, mi sento ma non mi sento.
” ti portano a in un istituto devi fare riabilitazione” dice mia madre.
” non è qui io e la mamma dovremo fare avanti e indietro, ci costerà” dice mio padre.
Costerà:
Soldi?
Fatica?
Paura?
A chi: a me o a loro? Quanto a me e quanto a loro?
” è un problema di soldi, non abbiamo più soldi?” Ma la mamma lavora, tu hai la tua pensione… l’assicurazione…” Dico io.
” no abbiamo i soldi ma non dovremmo spenderli se tu non fossi… così!” Dice mio padre.
Io:” ho risparmiato mille euro l’anno scorso puoi prenderli”
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