Ipocondria, timori infondati, catastrofi temute. La patologia di chi teme l’invidia degli Dei.

C’è un certo tipo di persone che appaiono genericamente ben funzionanti: lavorano, hanno una relazione, dei rapporti soddisfacenti, ma che ciclicamente sono pervase da angosce persecutorie. La tipologia più nota di questo tipo di pazienti sono le persone ipocondriache, persone cioè regolarmente dominate dalla paura di aver contratto una malattia molto pericolosa.  Questo tipo di persone spesso non sono riconosciute come portatrici di un disturbo psicologico. Di norma infatti si tende a decodificare la loro ansia, come la stessa che provano tutti quando si interrogano sul proprio stato di salute, solo ad una maggiore intensità. Inoltre le persone ipocondriache spesso e volentieri cercano di condividere la propria ansia, sembrano voler suscitare preoccupazioni, e questo innesca normalmente dei processi difensivi: chi ha a che fare con loro e con i loro timori si sente sopraffatto da questa richiesta emotiva, e se ne difende come può – anche con irritazione. L’ipocondriaco è percepito come ansioso, come uno che vuole l’attenzione per cose che non ha, uno scocciatore che prende in prestito il dolore vero delle malattie vere per acquisire una centralità non meritata.

L’ipocondriaco ha però dei parenti, meno invisi socialmente. Ci sono infatti persone che come dispositivo persecutorio scelgono altri argomenti: gli eventi politici, il terrorismo internazionale per esempio, o più frequentemente rischi improbabili che riguardano la loro vita privata e professionale.  Non sono malvisti come gli ipocondriaci perché la malattia è un timore con una maggiore base realistica, che deve aumentare con l’età, ma in compenso queste altre persone hanno in comune con gli ipocondriaci diverse cose: prendono spunto da una piccola occasione – il correlato delle analisi del sangue è un errore di contabilità nel contesto del lavoro – e costruiscono in base a quel piccolo trampolino di lancio una narrazione persecutoria che infeliciterà le loro giornate con timori che ad altri appaiono ugualmente irrazionali o improbabili. Per esempio quelli di loro che mettono in campo una fantasia persecutoria in ambito professionale,  possono chiedersi angosciati davanti a uno sbaglio commesso: se il capo si accorge di questo mio errore e pensa che sia stato voluto? E se allora pensando che è stato voluto chiama la commissione disciplinare che si mette a indagare sul mio conto? E se si viene a sapere?  E di li cominciare a non dormire la notte, chiedere continuamente rassicurazioni a colleghi, controllare ciclicamente tutto quello che hanno fatto. Altri  invece, costruiranno la loro ossessione persecutoria nell’ambito della loro vita privata. Alcuni per esempio temendo continuamente di essere traditi dalla o dal partner, oppure, instillandosi il dubbio di avere una tendenza omosessuale.

 Per esempio persone che hanno largamente interiorizzato un pregiudizio omofobico dal loro contesto culturale, possono arrivare a torturarsi ossessivamente con l’idea di se come persona omosessuale anche se non hanno mai avuto relazioni omosessuali, non le hanno mai cercate, e  – soprattutto – non provano eccitazione indugiando in fantasie omosessuali. (posto che sia poi così saggio porre una distinzione tra eterosessualità e omosessualità – ma diciamo, per amor di facilità e chiarezza).  Questa variabile del problema è una per altro delle più insidiose. Perché mentre tutte le altre inducono le persone a cercare di evadere il problema su qualcun altro, da cui cercano rassicurazione – creando problemi al prossimo, specie nel caso della gelosia, ma almeno rendendo il problema ben visibile, le persone che utilizzano il fantasma dell’omosessualità come fantasia persecutoria fanno molta fatica a comunicarla, perché la stessa fantasia glielo proibisce. 

Tutte queste vicende di angoscia così diverse tra di loro – hanno in comune alcune cose. La prima appunto, è la costruzione di un’idea persecutoria di qualche tipo, sulla scorta di un modesto gancio di realtà. A queste persone capitano delle esperienze che a loro volta creano in loro una sorta di catena associativa la cui struttura definitiva è comunque qualcosa che li mette in pericolo, li esporrà a sofferenza e vergogna e che – di qualsiasi comparto si tratti – li minaccia. La seconda è l’effetto che spesso tendono a generare nel prossimo, di incredulità, minimizzazione, in qualche caso fastidio – un po’ perché è la conseguenza di un timore che arriva come platealmente non fondato su dati concreti, un po’ perché questa è spesso la funzione inconscia che la patologia assegna alla comunicazione di questi timori. Spesso queste persone trasformano i loro interlocutori in persecutori giudicanti molto freddi ai loro stati emotivi.

La terza cosa che hanno in comune questi assetti psichici è una totale paralisi del contatto con se stessi, con le proprie emozioni, con la propria reale percezione delle cose. Molti studi per esempio correlano alti tassi di ipocondria con alti tassi di alessitimia: le persone ipocondriache cioè fanno fatica a contattare i propri stati emotivi e a verbalizzarli correttamente. Possono fare delle descrizioni dei propri stati d’animo e della loro esperienza molto impoverite, molto poco distinte. D’altra parte se si guardano tutti i casi in cui si presenta questa organizzazione persecutoria si constata che la persona è come se smettesse di fare riferimento a cosa sente e percepisce, mentre da totale credito alla fantasia persecutoria. Nella migliore delle ipotesi in seduta, o davanti a un amico che li riporta alle loro deduzioni e alla loro esperienza concreta diranno: si razionalmente lo so che è così, ma non riesco a utilizzare questa cosa per me. Non ci credo.La maggior parte di queste persone cioè ha un mondo di percezioni di sentimenti, di pensieri che gli suggerirebbe una narrazione dell’esperienza più veritiera e più tranquillizzante, ma quel mondo – non ha ascolto.

L’ultima cosa che hanno in comune queste persone è che alla fine con strategie diverse, si ritrovano tutte menomate nella loro qualità di vita – quando poi nella menomazione non viene coinvolto qualcun altro come succede quando la fantasia persecutoria riguarda la gelosia, che forse rappresenta un capitolo a se. Ma in generale queste persone hanno periodi in cui il loro pensiero – o il loro sonno – è colonizzato dalla minaccia, la loro capacità di fare bene delle cose, o di godersi dei momenti è inquinata e vanificata dalla persistente minaccia, per cui alla fine possono non fare delle cose, non riuscire a distrarsi, rinunciare a delle possibilità perché devono vivere sotto il cono che li protegga dalla fantasmatica minaccia – per cui in fondo possiamo dire che il gradino più profondo di questa organizzazione psichica è rappresentato dal disturbo ossessivo compulsivo, quando cioè per neutralizzare delle ossessioni si cominciano ad attuare dei rituali da evitamento. Inoltre  queste persone, spesso possono avere relazioni largamente compromesse, perché come si è detto questo tipo di preoccupazioni quando sono comunicate, e specie se sono comunicate molto spesso, tendono a produrre irritazione e rifiuto.

La mia sensazione  – dopo anni di lavoro con diverse variabili di questo funzionamento – è che queste persone, portino avanti una strategia che si deve essere cristallizzata nella prima infanzia.  E’ interessante constatare come questo tipo di fantasie si dispieghi maggiormente in momenti di successo, benessere svolta esistenziale – promozioni, una nuova casa, un matrimonio in vista – come se la fantasia persecutoria sia un dispositivo che ha lo scopo di ristabilire un clima di media scontentezza, un dispositivo che sia capace di scardinare una nuova fonte di piacere. Le fantasie persecutorie sono interruttori nevrotici che costringono i soggetti sempre a volare basso, e forse non funzionano tanto diversamente dalle fantasie sessuali che come Bader ha spiegato in quel bel libro che è Eccitazione (Raffaello Cortina ) sono formazioni di compromesso che ci inventiamo per far sopravvivere il piacere, contro le cattive eredità del passato. La fantasia persecutoria in questa prospettiva sarebbe un dispositivo che ci farebbe perdonare il lusso di una conquista, o ancora una volta di un piacere, e ci permetterebbe di andare avanti per quanto a capo chino, colmi di angoscia.

Spesso le persone che hanno questo tipo di funzionamento hanno alle spalle una madre che ha sofferto di una grave forma depressiva, o di una sintomatologia importante o anche, che non si è mai dimostrata capace di empatizzare con i momenti di felicità e di benessere del figlio. Questi adulti sono stati bambini che hanno avuto modi di vergognarsi o di sentirsi in colpa per essere stati dei bambini felici, che raramente hanno visto i genitori genuinamente contenti per loro, e che quando sono stati bambini perciò per un verso si sono sentiti colpevolizzati per il loro benessere di bambini – quando correvano per le stanze e c’era una mamma molto malata a letto, quando sono tornati saltellando perché a scuola qualcuno aveva detto che con i capelli così si era veramente carine, e la mamma ha fatto non una, né due, ma sempre una faccia severa, arcigna, per un altro hanno imparato a non dar troppo credito alla loro percezione interna, al loro essere in diritto di essere contenti.  Perché altra cosa importante da ricordare: tutta la psicoanalisi post freudiana insegna che noi impariamo la decodifica dei nostri stati interni dallo sguardo degli adulti: i bambini guardano i grandi per decidere cosa esprimere. Questi soggetti quindi, hanno imparato a provare colpa e a non dar credito alla loro decodifica degli eventi, e se quella gli aveva detto: devi gioire di questo pallone nuovo, devi gioire dei complimenti sulla bambola, com’è bello saltare con la corda. Hanno capito che era sbagliato.

Questo funzionamento allora si è cristallizzato e ogni volta che arriva una fonte di gioia, la fantasia persecutoria assolve una triade di compiti: in primo luogo, la decodifica dell’esperienza corretta è disattivata: la persona intuisce che non sarà tradita, che non ci sono gli estremi perché abbia contratto l’aids, che non verrà licenziata per un errore di contabilità, ma non ascolta la sua intuizione, non ascolta se stesso, i suoi aggettivi, cosa gli dice il suo corpo. In secondo luogo non lo fa andare incontro alla vendetta degli Dei, alla cattiveria del Destino che è l’oggetto di transfert implicito di queste fantasie, siccome sta sotto la cappa della fantasia persecutoria nessun genitore immaginario sanzionerà la sua ubris, la sua voglia di vivere. 

Infine in terzo luogo, malignamente la fantasia, una volta che sarà comunicata nel modo in cui sarà comunicata porterà gli interlocutori a vestire i panni del genitore sanzionante. La persona a ben vedere cade in una sorta di regressione infantile, parlerà come un bambino che fronteggia qualcosa che non sa gestire, e chiedendo consigli e ossessive rassicurazioni trasformerà l’altro nell’adulto che razionalizza e minimizza ed è un po’ infastidito, proprio come faceva sua madre quando era piccolo. E malignamente più la reazione dell’interlocutore sarà fredda e razionale, più monterà l’agitazione della persona. 

Ora bisogna tenere presente che queste idee persecutorie sono una costruzione sintomatica, quindi implicano un comportamento che a conti fatti procura problemi, ma che agli occhi dell’inconscio è una struttura adattiva, è l’unica soluzione percorribile per fronteggiare qualcosa che è letto come un ostacolo e una fonte di allarme. E’ interessante allora constatare il circuito perverso in cui cadono le relazioni in cui questi soggetti sono al centro, specie le relazioni con persone di primaria importanza – come può essere una compagna, o come può diventare anche per questioni di transfert un terapeuta. Se queste persone minimizzano le idee persecutorie che la persona racconta, se razionalizzano e non prendono sul serio il comparto emotivo di cui sono corredate, la persona con il disturbo percepirà un senso di allarme, di insicurezza, una sanzione che potenzieranno lo stato di allarme, e questo lo indurrà a essere ancora più spaventato dalle sue idee persecutorie. L’interlocutore vestirà definitivamente i panni della madre persecutoria e la frittata sarà fatta. 

D’altra parte bisogna anche tenere in mente che questo dispostivo per un verso garantisce una qualità della vita molto bassa, ma per un altro rappresenta un fattore omeostatico molto antico, che la persona ha cominciato a utilizzare dall’infanzia, e che non abbandonerà con molta facilità. Si tratta comunque di un sistema che riequilibra e giustifica una profonda percezione di assenza di risorse, di capacità di decodificarsi. Per cui alla fine occorre davvero fare un lavoro importante, che aiuti a debellare il meccanismo e a rafforzare le risorse interne della persona a farlo sentire in diritto di affidarsi alle idee razionali che potrebbero guidarlo nelle scelto a discapito della fantasie complessuali e persecutorie. Per fare questo lavoro non serve quindi soltanto un esercizio di decodifica della funzione omeostatica dell’ossessione, ma serve anche una quota di gradiente affettivo sorvegliato, per garantire alla persona la percezione di un diritto alla cura di se e al premio delle sue intuizioni, che non si è mai riconosciuto. Occorre proprio un lavoro di validazione, che si declinerà poi con il lessico e le scelte di ogni singolo terapeuta.

Dagli al narcisista. La nuova discutibile moda della psicologia in rete

Premessa

Con una certa frequenza arrivano in terapia persone che insieme alla consapevolezza per quanto confusa, di avere dei problemi nella loro vita privata, sono a disagio e infelici con le persone che hanno intorno, con i legami più importanti della loro vita in quel momento.  Può capitare, è molto comprensibile, che venga loro il desiderio di parlare soprattutto di questi rapporti disfunzionali. Allora raccontano molti episodi, chiedono al terapeuta una complicità indignata, chiedono di non essere cioè lasciati soli nella gestione di queste persone difficili, e di essere incoraggiati in una sanzione, una ribellione. A volte queste proteste contro un genitore, un fratello, dei colleghi, e nella maggior parte delle volte un partner sono assolutamente fondate. Altre volte invece è piuttosto evidente che l’oggetto delle loro lamentele ha assunto una funzione simbolica nella loro economia psichica. A essere piuttosto precisi però, questa funzione simbolica la relazione disturbata e fonte di infelicità ce l’ha sempre, anzi ce l’ha sempre qualsiasi relazione, e parte del lavoro della terapia consiste nel vedere questa funzione, e nell’indagare una serie di questioni importanti inerenti la relazione.  

Prendiamo come esempio un paziente che ha una relazione con un partner disfunzionale. Quali parti di se incarnava questo o questa partner quando venne scelto o scelta? Quando questo o questa partner si comporta in un certo modo, ricorda qualche altra persona nella vita del o della paziente? Come fa diventare il paziente quel partner con i suoi comportamenti? Sono solo alcune delle domande da porsi – perchè tutte le relazioni che abitiamo  – a dire il vero  anche quelle belle – sono grappoli di significati sommersi. Tutte le persone che ci scegliamo sono contenitori di nostri parti negate e non coscienti, a volte anche parti buone e parti belle. Quindi compito del terapeuta è indagare questo grappolo di parti negate, perché forse sono quelle che devono cambiare quando si sta in mezzo a una relazione disfunzionale. Con ogni probabilità quelle parti negate fanno il loro lavoro tossico anche in altri rapporti e spiegano il perché di certi incastri, e anche di altre cose che non stanno andando bene nella vita del paziente, anche se in questo momento non sono al centro della sua attenzione.

Vedere queste parti tossiche però è molto faticoso, e spesso i pazienti resistono. Il terapeuta insiste per parlare del paziente e il paziente non vuole e torna sulla madre cattiva, sul partner infedele. Ma lo capisce quanto è cattivo nei miei confronti? Parlare male del partner, polarizzare la situazione è rassicurante è noto, e non altera il funzionamento psichico, non fa cambiare niente, non fa fare domande scomode. Per questo il paziente insiste.
In quel caso di solito chiudo la seduta dicendo affettuosamente: 
la prossima volta non venga lei, faccia venire il fidanzato eh? Visto che abbiamo deciso che lei sta benissimo, una favola proprio e non ha bisogno di niente.

Una nuova moda psicologica

Ho fatto questa premessa, perché da un po’ di tempo, la rete pullula di video di colleghi che si occupano principalmente di un sottogruppo dei potenziali assistiti, ossia di persone che hanno una relazione con qualcuno che sentono come manipolativo, e che identificano come narcisista. Per avere un’idea di questo trend potete digitare su qualsiasi social: “narcisista”  – ma anche “relazione tossica” o come lasciare un narcisista. Come si distingue un narcisista e  osservare i video e i post che arrivano: ci si imbatterà in un incredibilmente ampio numero di post simili tra loro. 

In primo luogo, si noterà che  molti di questi interventi hanno una struttura narrativa simile: lo psicoterapeuta (o il coach, ma a me qui interessa parlare di psicologi e psicoterapeuti) si rivolge in modo molto sicuro e perentorio a una persona, più spesso una donna,  che viene raccontata come innamorata, dedita, desiderosa di aiutare il prossimo, molto attenta al partner, e un partner egoista, manipolatore, magari altisonante nelle dichiarazioni ma poco sollecito nei fatti, e nel breve video, con il blasone dell’etichetta professionale, si dicono cose bruttissime di questo partner, che due volte su tre viene definito appunto narcisista e quando non narcisista – manipolatore. In questa narrazione, il malessere della partner, destinataria del video viene completamente addebitato al compagno, che la farebbe sentire insicura, trascurata e che metterebbe in discussione le sue certezze e le farebbe mancare la terra sotto i piedi. Allora il collega psicoterapeuta di volta in volta di video in video, da consigli su come decodificare un narcisista, consigli che di solito coincidono con l’osservazione marchiana di un comportamento scorretto, su come discutere con un narcisista, e su come lasciarlo – qualcuno per esempio suggerisce una trasformazione in soggetto noioso e disinteressato, qualcun altro suggerisce di non farlo arrabbiare se no poi ci si sente in colpa e si ricomincia da capo. Moltissimi indugiano in frazioni della relazione: con video formulati con titoli ad effetto,  – perché il narcisista tradisce, perché il narcisista deve manipolarti, etc- e con lo psicologo, che guarda fisso in camera e dice con assertività cosa ti sta succedendo, e come ti senti di sicuro. Di solito comunque i perché dei comportamenti di questo partner narcisista sono spiegati con il disinteresse, il bisogno del controllo dell’altro, il bisogno dell’attenzione dell’altro, una generica insicurezza, in sostanza il caro vecchio filibustiere delle nostre nonne.

Questa modalità sembra essere una forma di pubblicità probabilmente capace di attrarre clientela. Non sappiamo poi come si comportino questi colleghi nelle loro sedute, una volta che il paziente decidesse di consultarli,  magari si riveleranno – c’è da dubitarne – degli ottimi terapeuti. Ma solo questi video meritano grande attenzione e per me dovrebbero arrivare allo sguardo dell’ordine nazionale degli psicologi, perché mi sembra che vadano in una direzione ostinata e contraria alla funzione della psicologia e della psicoterapia, sotto diversi punti di vista. Anzi, mi sembrano strictu sensu, una perversione della logica psicoterapica – che fa una divulgazione distorcente e pericolosa della professione, e in generale getta discredito su tutta la categoria degli operatori di settore.

In primo luogo buona parte di questi video si fonda su una sorta di confusione terminologica sostanzialmente in cattiva fede. Perché il termine “narcisista” è una parola con due usi. Esiste un uso del senso comune, che rimanda al mito di narciso, e un uso della clinica e della ricerca scientifica degli ultimo cento anni, che rimanda a una serie di funzionamenti psichici. Il narcisista di uso comune, è una persona vanitosa, vacua, molto innamorata di se stessa, che si serve dell’altro perché gli piace vedere come l’altro dipende da lui, e che può arrivare a essere molto svalutante e aggressivo quando si sente ferito.  La lingua quotidiana non ha obblighi deontologici e nella parola di uso comune c’è un giudizio di valore negativo. Nell’uso clinico invece intanto non esiste tout court il narcisismo, ma una serie di funzionamenti che fanno capo a un sostanziale disprezzo di se, un grande senso di dolore e di indegnità per cui si mettono in campo strategie compensatorie al fine di ottenere lo sguardo dell’altro. Questi funzionamenti narcisistici, a seconda di tanti fattori – quali le esperienze in età infantile, il comportamento dei genitori, etc. possono essere dominati da una grande capacità di sintonizzazione sui bisogni dell’altro, oppure – quando la patologia è più grave e costellata nei disturbi di personalità più floridi e importanti – da una impossibilità a sintonizzarsi con l’altro fino al congiungersi con il disturbo antisociale. Non a caso Kernberg aveva coniato la formula narcisismo maligno. Nella clinica però, ogni vocabolario che rinvia a una diagnosi anche in casi più spinosi di questo, come può essere il disturbo antisociale di personalità, la parola non può portare con se un giudizio di valore negativo, perché è in contraddizione con il concetto stesso di diagnosi, qualunque essa sia. Quello che fanno questi colleghi dunque è approfittare della confusione di termini e di ruolo, facendo credere grazie al loro titolo di parlare come un addetto ai lavori, ma parlando invece di persone come farebbe pino er pizzicarolo. 

Non solo cioè si spaccia il funzionamento narcisistico sempre e comunque con quello di uno specifico tipo che alle volte si presenta – ma se ne parla con sanzione disprezzo per quanto nella narrazione si decida, a torto, che sia l’unico vero titolare di malessere. Questa postura quindi non è solo poco rigorosa sul piano della divulgazione dei contenuti, ma è anche deontologicamente scorretta. 
Non mi pare che ci sia nessun lemma del codice deontologico dove si possa leggere: parla con disprezzo delle psicopatologie altrui. 

Esiste però un secondo livello del problema, che è appunto la perversione della mandato psicologico e psicoterapeutico.  C’è infatti un principio che unisce noi psicologi e psicoterapeuti di qualsiasi scuola: la cura psicologica nasce dalla conoscenza di se, dall’approfondimento dei propri meccanismi, con l’effetto di cambiare i rapporti con il mondo esterno. Questo principio non è dovuto a chi sa quale magnanima premessa etica, ma alla considerazione pratica e concreta per cui: agire sul paziente che si ha davanti, lavorare in una relazione con lui e con lei, è l’unica strada per poter ottenere dei risultati, che si sia cognitivisti o che si sia psicoanalisti – non cambia. Qualche volta può pure capitare, con un’alleanza terapeutica consolidata che un collega, a me succede, sia particolarmente direttivo rispetto a delle scelte concrete importanti da fare, specie in condizioni di pericolo o contesto gravemente patogeno per il paziente, si possono aggiungere delle esortazioni, può capitare che si dica cosa sia meglio fare in situazioni per es. di pericolo. Ma queste sono cose emergenziali, o comunque molto secondarie rispetto al lavoro della cura la quale, in primo secondo e terzo luogo deve aiutare il paziente a lavorare sul suo sguardo, sul suo modo di abitare le relazioni. L’idea che una buona psicologia è quella che esorta a diagnosticare dei presunti narcisisti tempestivamente per discriminarli, che una buona psicologia è quella che parlandoti male del prossimo ti farà campare bene, è sostanzialmente una truffa bella e buona: perché non aiutandoti a capire come mai finisci in certe situazioni, o perché le vivi così, ti esporrrà sistematicamente ad altre occasioni analoghe. Perché il problema è solo in una piccola parte, il partner di turno.

Piuttosto, viene da chiedersi. Siamo sicuri che secondo l’accezione di narcisismo proposta da questi colleghi il campione sia il partner delle loro ascoltatrici? Secondo questi colleghi ricordiamo, narcisista è colui che manipola l’altro, lo fa sentire molto importante ma allo stesso tempo non si cura dei suoi reali interessi, perché il suo ultimo fine sarebbe l’interesse personale. Non è un’accusa che si potrebbe formulare anche a proposito di chi fa questo tipo di branding della propria attività professionale?

(Postilla. Una spiegazione di psicologia sociale )

In questi tempi bizzarri la parola narcisismo è diventata un nuovo oggetto totemico, un catalizzatore simbolico del risentimento. Dopo una lunga stagione di oscurità dove pochi grandi narcisismi dotati di talento potevano emergere grazie a privilegi di genere e di ceto, per cui tutti perdonavano le pensose e autoriferite pontificazioni di questo o quell’intellettuale, tutti trovavano lecita e necessaria l’arringa politica dell’attempato signore nella prima serata televisiva, e al massimo ognuno poteva  osservare uno o due grandi egocentrici dei piccoli contesti quotidiani – il barista piacione, il compagno col megafono alle manifestazioni,   oggi la rete ci regala il panorama di tante piccole centralità, di tanti funzionamenti che non stanno nell’ombra e sono capaci di abitare e procurarsi un cono di luce, tutti con il desiderio di farsi amare, e ognuno con dei talenti, a volte non proprio facili da individuare – visibili benchè lontani dalle nostre quotidianità-  Se un tempo questi soggetti – bisognosi di essere al centro, di farsi vedere, di farsi amare sembravano  pochi e ben in vista – oggi si rivelano moltiplicati, e l’esperienza dei social ci regala, la per me nel complesso piacevole esperienza – di soggetti capaci di andare al centro della scena: perché sanno far ridere, perché hanno occhi belli – perché hanno un grande fuoco narrativo e raccontano cose in modo divertente – perché hanno un fuoco politico e pontificano di politica – perché ci hanno la passione della psicologia e scrivono (ci sono anche quelli onesti e capaci) di psicologia. Questo nuovo mondo regala personaggi fascinosi come la tramontata Ferragni, o il per me francamente inattaccabile Khabi Lane, ma anche un pulviscolo di micromondi, di piccole centralità (dentro cui mi ci metto anche io tutto sommato) di profili con un piccolo seguito, che hanno una loro piccola centralità – personalmente mi delizio delle cose più disparate: esperti di rettili, addestratori di pantere, pitonesse della maglia bassa, madri di famiglia con penne salaci, e via di seguito

. A questo nuovo panorama si può reagire in molti modi, ma uno di questi – il più sofferente, il più pericoloso per se e per la propria qualità di vita è quello di cadere in una modalità invidiosa, in una postura che possiamo definire kleiniana.

Melanie Klein ha infatti introdotto una concezione dell’invidia molto particolare, e con una lettura psicoanalitica molto sofisticata. Il primo momento di grande invidia è provato dai piccoli lattanti quando si trovanoa confrontarsi con il proprio bisogno del seno materno, ma questo seno materno non è accessibile. I lattanti non parlano, quindi questi stati d’animo non sono rappresentati con le nostre logiche discorsive, a cui accediamo dopo i due anni, con il dominio della parola. Quindi i lattanti sono sovraffatti dal ricordo di qualcosa di tremendamente buono e importante e ricco, e dalla percezione lancinante di esserne privi, di non avere niente di buono, di essere in totale assenza di ciò che procura bisogno. Questo stato penoso li induce a provare una rabbia molto molto intensa, e chiunque abbia avuto a che fare con un’esperienza di allattamento, conosce l’ira furiosa di un piccolo che ha troppo aspettato, per cui quando arriva l’oggetto buono, il seno materno, lo riempie di calci e di pugni, ma non mangia. 

Allora a volte mi pare che questa nostra era, che da più parti viene considerata l’era del narcisismo imperante, possa essere categorizzata anche in un altro modo, ossia l’era dell’invidia socializzata, l’era in cui soggetti che si sentono più privi di risorse, che sottovalutano le loro possibilità e competenze, che fanno fatica a gestire un piano comunicativo o magari certi assetti identitari dominati dalla ritrosia, dalla riservatezza, si scaldino l’uno con l’altro, e socializzino un disagio nevrotico che si cristallizza intorno allo scandalo per la capacità di essere al centro dell’attenzione di un altro, colpevolizzandola in varia misura, e sottolineando degli aspetti negativi che a volte sono presenti a volte indebitamente addebitati. A quel punto, il partner egocentrico, pieno di se, magari davvero con un disturbo di spettro narcisistico diventa un nuovo mezzo di questa mentalità collettiva, e la sanzione e i modi di scansarlo un modesto balsamo che non aiuta nessuno. 
Se ci sono cioè delle risorse sommerse, che nessuno vede, non sarà aggredendo quelli che le mettono in vista che diventeranno luminose. 
Ed è un peccato.

la Signora Sanchez, Balzac e l’io pelle. Sulla chirurgia estetica come ossessione.

Tra i tanti rivoli di chiacchiera pubblica sul matrimonio di Bezos, un piccolo filone è stato dedicato alla fisicità della sposa, la signora Lauren Sanchez, il cui volto e il cui corpo sono sembrati a tanti essere più che il segno di un’identità, il risultato di un faticoso e testardo progetto. La nuova signora Bezos si è sposata in una guaina bianca che stringeva strettissima un vitino incredibilmente sottile, su cui trionfava un seno solido e compatto quasi lisergico, mentre il volto non manifestava alcuna ruga, gli zigomi scolpiti, le labbra tridimensionali e una certa resistenza alla varietà delle espressioni emotive. Si sono congetturate molte diete, molto molto sport, molte plastiche, tanta fatica. La signora ha 55 anni! Che non dimostra affatto. Ma anche quanti ne dimostra non è proprio dato sapere, perché il suo lavoro sul corpo la proietta in una dimensione un po’ fuori dal tempo, il corpo della signora Sanchez non si riesce a datare come i nostri.

Non mi interessa parlare della Signora Sanchez, di cui non abbiamo per altro dichiarazioni ufficiali in merito a eventuali interventi di chirurgia estetica, né mi sono particolarmente documentata sul suo rapporto con il fitness. Mi interessa entrare invece in una discussione pubblica che riguarda un certo gruppo di donne, tra le quali figurano anche diverse personalità del nostro mondo italiano, in cui giornaliste, attrici, o signore magari facoltose della buona borghesia arrivano a portare in giro un certo tipo di corpo, che non è solo ritoccato regolarmente, con una strategia più o meno sapiente, per arginare e ridurre gli effetti del tempo, non è solo nutrito con saggezza e allenato con tenacia perché si mantenga agile  snello e piacevole, ma che diventa un progetto staccato dalla realtà, un oggetto plastificato e bionico di cui si perde di vista l’antico demone. Sicuri che voleva apparire più giovane? Ci si chiede dubbiosi. Perché non sembra più giovane, sembra un personaggio di Asimov. Voleva forse smettere di essere umana?

Un conto è cioè una chirurgia estetica utilizzata per osteggiare, benché transitoriamente, e benché solo per quel che consiste il corpo verso l’esterno, il potere del tempo, ma nell’amore per la propria identità.  Alcuni interventi, magari molta attività fisica, magari una dieta controllata, per non perdere di vista quello che si è state e che si desidera di continuare a essere. Un conto invece è una successione continua di interventi anche massivi, in cui a un certo punto sembra scomparire una doppia identità, identità di soggetto e identità di specie, perché a un certo punto risulta evidente, che nella lotta al potere del tempo, se ne vanno anche certi avamposti dell’io, della soggettività, della corporeità carnale. Questo tipo di rapporto con il corpo porta al risultato per cui si finisce più con il somigliare a una barbie abbandonata in autogrill che a una ventenne che sorseggia un aperitivo, anche perché gli interventi non vanno nella direzione di quello che quella persona è sempre stata, ma nella direzione di un modello astratto che la persona ha in mente. Quello che è stato  – se ne va.

Le polemiche di questi giorni, sulla fisicità della signora Sanchez, hanno allora ricalcato le polemiche che sempre emergono in questi casi in cui si fronteggiano: persone che imputano gli sforzi della signora Sanchez all’imperante maschilismo, e persone che in virtù invece di una nuova prospettiva femminista difendono la signora Sanchez nella sua libertà di fare quello che vuole della sua fisicità, e difendono la sua agency, cioè il fatto che eventuali decisioni le ha prese a ragion veduta,  consapevole di ciò che stava facendo, intitolandosi una battaglia per se e non necessariamente per compiacere uno sguardo maschile cui si sentirebbe obbligata ad aderire. Io devo dire, dovendo scegliere tra queste due squadre, tifo sicuramente per la seconda, ma a proposito di questo tipo di scelte sul proprio corpo, mi sento di fare delle riflessioni diverse.
Il mio pensiero cioè – è andato a Raphael de Valentin, l’eroe di quel bellissimo romanzo di Balzac del 1831, la Pelle di Zigrino.

Raphael è un giovane aristocratico decaduto che, una notte in cui sta valutando di suicidarsi nelle acque della Senna, ottiene da un misterioso antiquario una pelle magica, che ha la possibilità di esaudire ogni suo desiderio – cosicché subito dopo essersela procurata diventa ricchissimo e ottiene l’amore di Pauline, la donna che ha sempre desiderato.  Il problema di questa pelle di Zigrino però è che per ogni desiderio esaudito si restringe, per cui Raphael capisce che se desidera con troppa disinvoltura, morirà presto: dal momento che lui ora possiede la pelle, è in relazione con lei, la pelle in qualche modo possiede lui, e hanno un legame saldato. Nella seconda parte del romanzo perciò, il disgraziato per non smettere di vivere, si condanna a smettere di desiderare, per avere la pelle intatta, per non arrivare a morire. Si ritira in un lussuoso palazzo dove sta con un servo, che ha il compito di impartirgli degli ordini, e di impedirgli di avanzare una scelta. 
Naturalmente, morirà comunque, e morirà perché gli è impossibile non desiderare.

Certe donne mi ricordano Raphael de Valentin. Per un verso lavorano per proteggere la vita e il desiderio, per un altro si condannano a un’assenza di vita e di desiderio, iscrivendosi nella situazione paradossale del proteggere il desiderio, mortificando il desiderio. Devono mangiare pochissimo, devono fare moltissima attività fisica tutti i giorni, molti periodi del loro anno sono confiscati dalle azioni di chirurgia estetica. La lotta al tempo, diviene il viatico per un progetto di se proiettato fuori dal tempo, il cui senso principale riguarda l’eventualità di godere, più che il godimento stesso. A uno sguardo psicologico perciò gli scopi in campo sembrano due: uno riguarderà la simbologia proiettata sull’oggetto corpo, l’altro riguarderà la funzione a cui assolve la fatica esistenziale a cui ci si deve sottomettere: i lavori forzati per il corpo.

Penso che mettere in relazione questo sacrificio del desiderio all’idea di un femminile tarato sullo sguardo maschile, sia però grossolano e riduttivo, per molti motivi. Il primo è a monte riguarda l’idea che il corpo erotizzato della donna, sia meramente una fantasia maschile. Questo è un grande problema in generale del femminile con l’estetica del femminile, e con il piacere che le donne provano a piacersi e a piacere. Si crea sempre questa confusione per cui: siccome il maschilismo vuole che le donne siano solo oggetti sessuali, le donne non dovrebbero desiderare mai di essere oggetti sessuali. Quando in realtà funzionano come i maschi in questo: vogliono essere oggetti/soggetti sessuali insieme ad altre cose. Non essere altre cose, senza essere sessuate affatto.  Abbiamo bravissime giornaliste italiane, per esempio che sembrano cadere nella chimera di Rafael de Valentin eppure rimangono bravissime giornaliste, magari anche la nuova signora Bezos nella vita fa molte cose, in cui si riconosce e per cui è riconosciuta dal suo contesto.

Per decodificare questo tipo di scelte, penso che sia saggio passare dalle storie individuali, per chiedersi la ratio psichica di quella che in certi casi mi sembra una trasposizione chirurgica della bulimia, qualcosa che conserva un tratto ossessivo, una dipendenza dall’azione più che l’esaurimento di un progetto, una scelta che non è esattamente il conseguimento di uno scopo, ma una sorta di professione permanente, di attività costante che nutre se stessa. Il modello a cui eventualmente si vuole aspirare – solitamente: le labbra carnose, gli zigomi alti, degli occhi genericamente a cerbiatta con l’arco sopraccigliare alzato, il seno tondo e la vita molto molto sottile – rappresentano solo una piccola parte della questione. Sono diciamo il tatuaggio di un simbologia che ha radici nelle vicende psichiche della persona, nel suo commerciare con i codici culturali, e nel suo desiderare di eludere il potere del tempo, della storia, della morte. Ma quando per raggiungere questo scopo, le azioni diventano tante e massive, si diventa delle lavoratrici forzate del progetto in fieri, viene il sospetto che un ruolo psichico importante lo possa avere proprio il sottomettersi a questa routine, il fare reiteratamente questi gesti.

Si possono fare poi delle letture interessanti di queste azioni, ma senza che siano situate, correlate alle storie individuali, diventerebbero – come lo sono le decodifiche ideologiche per esempio dei disturbi alimentari – riduttive e grossolane, correndo il rischio importante di ritrarre le persone che operano queste scelte, come molto meno complesse e sofisticate di quanto siano. Quando cioè un modello culturale, viene scelto e difeso a costo di azioni complesse e grandi sacrifici, bisogna sempre chiedersi che ruolo ha nella psicologia di chi lo adotta, che funzione ha nelle sue fantasie, cosa risolve e cosa placa, a quale vicenda remota risponde, quale problema risolve. La teoresi della mera suggestione è sempre insufficiente. Inoltre, come si diceva la stessa azione merita di per se una decodifica, assolve una funzione. Non è solo il corpo magro a contare, ma il senso dello stare a dieta, non è solo il seno rifatto a contare, ma il senso di fare diverse operazioni al seno.

( La psicoanalisi secondo me ha offerto delle buone indicazioni di metodo, per capire la funzione che svolge l’uso del proprio corpo nell’economia di una psicologia. Personalmente, sono grata a due testi, che mi sento di indicare qui. Il primo è un grande classico della psicologia e della psicosomatica, e si tratta de l’Io pelle di Didier Anzieu. In questo libro, che effettivamente è un caposaldo, l’idea è che la pelle, è il nostro primo organo di comunicazione, il nostro primo canovaccio. Quando veniamo al mondo infatti, abbiamo pochi canali comunicativi e la pelle è uno dei primi fogli su cui cominciamo a scrivere cose: i nostri pallori, i nostri rossori, le nostre prime infiammazioni sono parole della nostra coscienza nascente, parole delle nostre prime emozioni. Quindi è lecito chiedersi quali emozioni si rincorrono, o quale sovrano controllo o dominio delle emozioni di cerca di esprimere lavorando a questo progetto sulla pelle come ente fuori dal tempo, fuori della storicità del corpo, fuori dallo scacco della morte, ma io credo anche e soprattutto fuori dallo scacco delle emozioni. Viene da chiedersi se questo topos della pelle plastificata non sia l’anelito a una alessitimia di ordinanza, la simbologia di un’atarassica liberazione dalle emozioni umane troppo umane, dolorose troppo dolorose, che come la morte, ci vinceranno comunque – ma almeno il più tardi possibile.  E viene da chiedersi perché quella certa donna vuole vincere la partita in quel modo. Il perché però starà nella sua storia persona che reagisce a quella collettiva, non meramente nella suggestione.

Il secondo libro che mi sento di consigliare, tra i più belli che ho letto negli ultimi anni, è quello di Alessandra Lemma, Sotto la pelle, psicoanalisi delle modificazioni corporee. Non lo riprendo in mano da un po’, ma direi che influenza molte delle righe che ho scritto fin qui. Si tratta di un testo molto affascinante, che per spiegare questo complesso rapporto che si crea tra mondo psichico e azioni sul corpo, tra simbologie interne, sogni, vicissitudini familiari e scelte concrete passa da Mary Shelley, Orlan, fino alle giovani che lavorano in televisione e fino alla psicologia dei tatuaggi. E’ un altro buon libro che da una preziosa indicazione di metodo, e che ci tiene lontani da riduttivismi pericolosi. )

Noi, gli adolescenti, la rete

1.Il pungolo di Adolescence

Negli ultimi giorni il dibattito pubblico è stato occupato dalle critiche sulla miniserie televisiva Adolescence, la quale racconta in modo per molti convincente, la vicenda di un giovane di tredici anni colpevole di aver ucciso una sua coetanea. Al di la dei meriti tecnici, la serie ha avuto molto successo anche perché tocca alcuni nervi scoperti della genitorialità oggi – al tempo di internet.  Se infatti di per se l’adolescenza è sempre stata un periodo di vita complicato sia per i ragazzi che per le loro famiglie, agli occhi dei genitori di oggi l’impresa della cura e dell’educazione dei figli sembra diventare ancora più complessa e angosciante, perché la presenza della rete, sembra suggerire un nuovo mondo dove i figli sono immersi, sul quale non si ha nessun controllo, dal quale sembrano arrivare continue seduzioni e minacce, la rete cioè sembra essere un luogo terzo assolutamente fuori controllo. 
La serie metteva in campo il caso di un piccolo femminicida. Metteva quindi in scena un doppio spauracchio: lo spauracchio di un malessere del giovane, di un suo stare male, di un suo disagio e di una sua mutazione non avvertita e allo stesso tempo, lo spauracchio di una caduta morale, di una mancata trasmissione di valori, di anticorpi per muoversi nel mondo e per decodificare le informazioni –  per sopravvivere e per non fare del male.  
Infine, lo faceva mettendo in campo un caso limite, senza illuminare le dinamiche psichiche e familiari che mediamente producono questo ordine di comportamenti. In effetti i primi strumenti grazie a cui una coppia normale non produce un assassino riguardano la qualità dell’accudimento nella prima infanzia, il funzionamento della relazione di un bambino con sua madre e suo padre, le strategie comunicative e affettive che sono messe in atto tra genitore e figli già nei suoi primi anni di vita.  Un buon accudimento, sufficientemente amorevole infatti, permette la costruzione di difese emotive mature, e aiuta la strutturazione di un pensiero razionale che rende quanto meno più improbabile la caduta in azioni pericolose di fronte a certi impulsi, a grandi ondate emotive che emergono dall’interno.  Ma è lecito chiedersi se oltre a questo gli adulti che hanno a che fare con figli teenagers, possiedano altri strumenti per interagire con loro, per navigare nel  il mondo della rete e delle relazioni in rete. Strumenti che siano ulteriori rispetto alla trasmissione dell’affetto e dei valori, che da sempre si cerca di praticare con i figli. Le persone che hanno reagito con angoscia alla visione di Adolescence, mi è sembrato che temessero di essere prive di strumenti.
Ho pensato di scrivere perciò questo post, nel tentativo di fare prima di tutto per me, genitore di due minorenni e non di rado terapeuta di minorenni, un inventario degli strumenti di bordo che possediamo noi adulti di fronte a questi interrogativi. Non è detto che questi strumenti inventariati funzionino per certo e scongiurino le sventure collegate alla magia del libero arbitrio altrui, ma almeno possiamo ragionare su cosa abbiamo in mano.

2. Sfere a confronto.
Una cosa che mi sembra non aiuti, è una rappresentazione polarizzata della questione per cui: loro, i millennials, i giovani, sono i nativi digitali: cioè, quelli nati in un contesto di cui dominano linguaggi e regole, mentre il mondo degli adulti, dei boomers sarebbe quello di quelli nati prima, di quelli che non lo possono capire gran che e che quindi sono sbalzati fuori dal mondo della rete. Eppure questa è una falsa polarizzazione, perché i genitori di questi ragazzi appartengono in larga maggioranza a uno stile di vita in cui la rete ha anche per loro, oramai da almeno un paio di decenni, un ruolo importante nella vita quotidiana: socializzano sui social, traggono info dai social, cercano occasioni romantiche sui social, scambiano pareri in rete, costruiscono marketing e occasioni di lavoro in rete. Quindi forse bisognerebbe riconoscere che soprattutto i genitori e gli insegnanti che vivono la relazionalità on line nelle sue diverse forme, hanno un capitale di competenze da spendere con i figli, e non dovrebbero essere – per fare un esempio –  eccessivamente tramortiti dalle differenze di stile linguistico che ci possono essere tra le chat degli adolescenti e le proprie, perché alla fine sono sempre chat -ergo: il sistema di decodifica che mettiamo in atto noi quando leggiamo i commenti ricevuti sotto le nostre foto su Instagram o su Facebook non è poi così sideralmente diverso da quello che deve mettere in atto un adolescente sui suoi canali. Cambieranno i segni, cambieranno i colori, cambieranno lo slang e le allusioni, ma noi, con loro abbiamo in comune questo: ci ritroviamo in interazioni con altri soggetti di cui non vediamo in vivo la mimica e il volto, ma di cui valutiamo o delle rappresentazioni, o delle stringhe di discorso scritte. In comune con i nostri figli abbiamo una decodifica delle intenzioni per le quali anche noi abbiamo fatto la nostra scuola, anche in rete. Questa scuola è spendibile.
Abbiamo poi in comune un’altra cosa. Ossia: i soggetti che comunicano con i ragazzi, come quelli che comunicano con noi, rimangono esseri umani, anche in rete, con le stesse variabili psicologiche di sempre, le stesse che noi e loro osserviamo fuori da internet, le stesse che hanno osservato i nostri nonni e bisnonni e che ora si traslano nel virtuale. L’adulto ha una esperienza di decodifica del comportamento e di orientamento nel mondo, che può tornare utile nel virtuale e che in momenti di scambio con i figli può ritornare preziosa

Forse bisogna allora che tutti comincino a ritagliarsi uno spazio di riflessione, che può essere anche un argomento di scambio generazionale da fare a tempo perso, non necessariamente a proposito di qualcosa che è accaduto nella vita degli uni o degli altri, su come i diversi stili di personalità e modi di essere nella vita si riflettano nei modi di essere e di relazionarsi in rete. Come li decodifichiamo? 
Noi adulti per esempio che usiamo i social abbiamo  acquisito una serie di dispositivi che diamo quasi per impliciti nelle nostre relazioni on line, e facciamo delle valutazioni caratteriali e personologiche quando nei social o sulle piattaforme interagiamo con dei profili. Secondo me parlare di queste valutazioni implicite che tutti facciamo, genitori figli, può essere un buon punto di partenza. Come trovi che sia la comunicazione di questo soggetto con cui interagisci? Che cosa ne deduci? E’ introverso? E’ estroverso? E’ timido è presuntuoso, E’ accogliente E’ inutilmente aggressivo?  Cosa non ti piace della comunicazione di questa persona con cui interagisci? Perché?

In secondo luogo noi da adulti abbiamo un insieme di idee abbastanza precise sugli itinerari che devono seguire mediamente le prassi relazionali, e almeno io, che in rete ci sto da molto, e che ci ho trovato non solo significative occasioni professionali ma anche significative amicizie, ho un insieme di idee abbastanza chiare su come deve procedere la creazione di un legame che nasca dalla rete.  Questa creazione di un legame passa da una serie di passaggi che sono l’esplorazione delle informazioni a disposizione, l’esplorazione delli stile comunicativo della persona con cui ho a che fare, come atti non programmati e diffidenti ma atti spontanei che mi consentano di farmi un’idea di qualcuno che poi mi dovessi trovare ad incontrare. Trovo che sia utile, con i figli, confrontarsi sulle strategie di acquisizione relazionale che si mettono in campo in rete. Mettendoli in guardia da uno schiacciamento ottimistico verso la semplicità che è tipico, e anche bello volendo, della giovane età. 

In terzo luogo noi adulti abbiamo un capitale di competenze nella valutazione delle informazioni che ci viene dalla vita fuori della rete, e che ci aiuta a orientarci nel mare magnum delle informazioni che arrivano dalla rete.  Noi abbiamo una non sempre esplicitata gerarchia delle fonti accreditabili, e un sistema valoriale e una idea del sapere che applichiamo quando ci troviamo di fronte a delle informazioni. Ragionare insieme ai figli su queste cose può aprire terreni comuni, e può aiutare una trasmissione di anticorpi. Specie se questo ragionamento avviene nella tutela e nel rispetto di codici identitari che sono funzionali alla personalità nascente. Non è importante dare il giudizio di valore sulla musica di merda, è importante chiedersi insieme in base a cosa decidi che il tizio che segui su tik tok ti da informazioni attendibili sulla musica che ti piace?
Di contro, siamo anche consapevoli di due questioni, una inerente l’esperienza di rete l’altra i diversi funzionamenti psichici nelle fasi della vita.

La prima riguarda un’esperienza in rete che mediamente abbiamo attraversato tutti noi che abbiamo usato internet, o che abbiamo almeno osservato in quelli che lo usano ed è il problema della sospensione di incredulità che l’on line tende a veicolare. Abbiamo moltissimi esempi delle conseguenze di questo problema: perché tutti ci siamo accorti del senso di familiarità visiva che da un programma utilizzato da molto, o al contrario il senso di veridicità affidabile che da la pagina di apertura di un sito che ricordi i format della carta stampata – e tutti noi sappiamo quanto queste due decodifiche psichiche ci espongano a fraintendimenti e truffe. Ognuno ha i suoi esempi più o meno imbarazzanti: c’è la persona che ha creduto al messaggio della banca che chiedeva di fornire nuovamente le credenziali del suo conto, chi ha creduto di parlare su wa con il genitore anziano e invece era un truffatore, fino all’esperienza di chi sui social, ha creduto – come è successo tristemente proprio a me – di interagire con una persona di cui credevo veritiere foto e informazioni di vita, quando si trattava di un profilo fake.  Queste esperienze ci hanno insegnato a essere guardinghi on line, perché noi tutti dobbiamo sapere che l’on line è quella terra di mezzo delle azioni che permette un pianerottolo intermedio che spesso il mondo reale non garantisce, ossia il pianerottolo della progettazione a freddo di azioni e rappresentazioni. La maggior parte delle persone usa questo pianerottolo in modo parziale, la maggioranza delle persone è in rete mediamente autentica ma censura delle informazioni, controlla il suo modo di essere in relazione ma non lo fa in modo totale, ma tutti ci siamo scontrati con chi invece usa il pianerottolo dell’espressione in tutte le sue possibilità, preparando a tavolino un’identità in rete che ha degli scopi precisi, non sempre benefici dove l’autenticità è il più possibile dissimulata.
Il secondo riguarda lo statuto dell’adolescenza

3. Un periodo peculiare
L’adolescente è cioè, parafrasando Winnicott,  qualcuno che vuole non essere capito. Ossia qualcuno che vuole essere l’oggetto di un pensiero che non riesce ad afferrarlo, anche se parte del suo desiderio è che questo pensiero si occupi di lui indefessamente. E’ infatti la complicata stagione della costruzione di un’individualità da portare avanti con i mattoni di casa e i mattoni di fuori, in modo da costruirsi una garanzia di non identità: vengo da te genitore ma sono diverso eh, sono diverso perché pur venendo da te, appartengo a questo mio tempo che mi dispiace no no, non è il tuo. Eh, mi dispiace, non puoi capirmi del tutto. 

Questo copione di fondo conosce mille variazioni e mille gradazioni, ma trova nel mondo on line una occasione favolosa: diversamente dal bar dove ci si vede con gli amici, il campo di calcio piuttosto che la discoteca, luoghi visibili dove l’adulto potrebbe con un colpo di testa decidere di avventurarsi per vedere esattamente l’arredo materiale della vita del figlio, i volti, le esperienze – la rete può offrire stanze sconosciute e rivendicabili come misteriose senza troppo sforzo, stanze di cui è particolarmente fascinoso e rincuorante descrivere la siderale alterità con il mondo delgi adulti. Ma che ne sai te, ma che ne puoi capire. E quando la vita fuori dovesse diventare troppo complicata (ma questo è un altro post) stanze dove ci si può cercare di rifugiare senza uscirne più.

Un’altra falange di caratteristiche dell’adolescenza, anche se pure in questo caso è importante la variabilità tra soggetto e soggetto riguarda il grado di impulsività, la potenza del desiderio e dell’immediato che in tanti adolescenti si fa ruggente e tremenda. Non è per tutti lo stesso, alcuni sono anzi fin troppo ritrosi, in certi l’adolescenza coincide con terrori che li ficcano in fondo ai letti delle stanze, ma se pensiamo ai rischi che si temono e che hanno generato quel dibattito e questo post – c’è questo terrore della potenza del desiderio, della potenza delle ondate motive, della potenza del desiderio esplorativo e della potenza con cui queste cose possano portare le persone molto giovani a fare degli errori madornali, a mettersi in pericolo. Essere giovani vuol dire anche avere il fuoco, il fuoco del tutto improrogabile. Avere la testa sulle spalle, può sembrare terribilmente noioso. La saggezza è una roba da vecchi. A rendere il tutto più complicato è la capacità della rete, l’abbiamo visto noi con le nostre bolle di simili sui social, quelle per cui ci rimproveriamo di non tenere contatti con gente che vota diversamente da noi, di collettivizzare e socializzare comportamenti simili, di creare gruppi anche maligni tra fragilità e cattiverie che si consociano, e nella tempesta adolescenziale in questo complesso viaggio tra costruzione incerta di se, mentre nuove emozioni ruggiscono, la voce forte dei gruppi che nascono sui social può essere una sirena.

4.E dunque?
Nonostante questa lunga serie di riflessioni, rimane il fatto che l’intervento genitoriale su queste questioni dovrebbe tenere a mente due livelli, e che il primo e più importante livello, rimane quello riguarda la qualità della relazione con i figli, rispetto alla quale la rete non deve diventare mai un campo veramente antagonista, ma un campo esplorativo ed esistenziale da inglobare nel processo di esplorazione e maturazione. Quando la rete diventa un campo seriamente antagonista, un campo dove il ragazzo o la ragazza dicono di essere mentre in famiglia non sono, diciamo spariscono, non si fanno vedere, non sono decodificati, non fanno pervenire nessuna informazione – quella non è la rete e quella non è manco la normale adolescenza, li si è costruito un grande problema tra genitori e figli e la rete offre una via di fuga e il luogo dove costruire relazioni riparative, o sperare di ottenerle.  Ma questo vale per la rete, ma vale anche per quelle situazioni in cui la rete non ci entra niente e un certo gruppo sociale con le sue regole e ideologie si prende un figlio e il figlio manca di esistere a casa, è una sorta di fantasma di se stesso. In questa fase esistenziale l’obbiettivo è un po’ quello di avere dei figli con cui ci sia un dialogo di fondo, all’interno del quale emergano dei momenti oppositivi, vuoi dovuti alla individuazione di diverse prospettive, vuoi per il problema delle regole e dei limiti che l’adulto mediamente dovrebbe imporre per il benessere della prole. L’adolescenza dovrebbe essere una serie di scontri in una palestra sicura.  

Perché questo avvenga, due buone cose sono, prenderli sul serio, prendere molto sul serio quello che a loro interessa nella costruzione di se, e ragionare insieme su come essere intelligenti in questa costruzione di se -nei passaggi in rete. Fare banalmente tante tante domande, ponendosi come soggetti curiosi di sapere le cose del mondo dei figli, abitando anche la sedia di essere quello che non sa a cui farsi spiegare le cose, per poi eventualmente fare altre domande, e mettere i figli di fronte all’eventuale assenza di riflessione, di fronte alla eccessiva immediatezza, ma anche lasciarsi stupire dalla competenza e premiarla narcisisticamente. Perché l’orgoglio di una cosa ben compresa e ben fatta motiva a farne altre in modo altrettanto preciso e altrettanto non ingenuo.  Se l’atmosfera lo permette raccontare la propria esperienza che potrebbe rivelarsi non tanto dissimile. In questo ordine di scambi, l’obbiettivo mentale deve essere quello di essere concepiti come una base sicura, da cui allontanarsi e tornare anche per fare dei rifornimenti concettuali e di strumenti. 

Infine,  se è opportuno, fare particolare attenzione a spie di incertezza e malessere rispetto alle quali la rete, ma anche gruppi fuori dalla rete dovessero fornire delle chimere che garantiscono un balsamo narcisistico a sensi di grande malessere o inadeguatezza. Senza arrivare alle spesso improbabili prospettive di Adolescence, il problema della capacità seduttiva dei comportamenti violenti, e delle organizzazioni violente, è la capacità di riparazione narcisistica che offrono agli agiti nevrotici.  Ma se un giovane ha il desiderio di compiere un’azione aggressiva, o autoaggressiva e trova un gruppo di pari che gli da l’alibi per farlo, il problema non sta nel gruppo di pari o nella rete che gli permette di contattarlo. 

Auguri dalla gatta nera e altri felini

(Sono la gatta nera che abita nella cripta della Chiesa. La notte esco sui rami e sopra i tetti e dall’alto vi guardo litigare o baciarvi, qualche volta sento i pugni che stringono nelle tasche, tal’altra annuso la vergogna la rinuncia e la stanchezza. Vi auguro di trovare artigli, cattivi occhi di ambra, la determinazione spietata che serve alla coerenza del bisogno.

Sono il certosino languido della signora al piano terra, sono quello che occhieggia dalla tenda ricamata, l’animale pigro e grasso che sorride nelle foto dei bambini, il sultano sul cuscino accanto alla kenzia personale, io non vi spio amici miei, troppa fatica, io vi ritrovo mio malgrado nello sguardo, e penso che abbiate bisogno di inedia, lassismo, tappeti e indulgenza, che va bene quella cosa della determinazione spietata per carità, ma a brevi lassi di tempo, perché la spietatezza è logorante.

Siamo i tre gatti bisbetici che corrono sulle macchine ogni mattino presto, che cacciano i passeri i topi e possibilmente i panini smozzicati, siamo i piccoli trickster in cui inciampate, o con cui chiacchierate quando nel freddo dell’inverno aspettate l’autobus che vi porta al lavoro. Noi vi auguriamo sentitamente anarchia, surrealismo e insubordinazione, per le quali cose abbisognate di lische di pesce e pallie di carta. Noi vogliamo che in questo anno a venire, sappiate vedere il mondo a capo all’insotto, il mondo col cielo ai piedi e le scarpe sulla luna, perché pensiamo, che a questo essenzialmente servono i gatti.

Sono l’imperatrice persiana del palazzo con gli alberi scolpiti. La regina di Saba bianca come il latte con gli occhi turchesi. Amate qualcuno come io sono amata? Me lo chiedo quando vi vedo ridere spensierati, quando state con gli amici intorno ai tavoli a dire innocenti sconcezze. E se amate, fate sapere per bene il vostro amore? Perché io, che sono la regina, la gatta a cui tutto si deve, io so che talora avete rinunciato. E questo non va bene. Io vi auguro di amare dunque, di miagolare a squarciagola, di non tirarvi indietro, di immolarvi se è necessario, di stronfinarvi lussuriosa alle gambe di chi avete scelto, di inarcare la schiena con voluttà, dimenticandovi del resto. Di perdervi, senza più trovarvi.Che poi se invece vi ritrovate, potrete pensare. Ne è valsa la pena)

(qui)

La chiusura di una terapia psicodinamica

Una delle domande più frequenti che capitano all’inizio delle psicoterapie riguarda la durata della terapia. La persona viene, racconta i motivi per cui ha deciso di intraprendere un percorso, spesso all’oscuro delle differenze di scuola tra un approccio e un altro, e quando incontra uno psicoterapeuta di orientamento psicodinamico, si confronta con questa sensazione di margini incerti, di fine lontana. 
Quando finirà? Chiede.  L’analista dice: non possiamo saperlo adesso.
Spesso questo porta un legittimo disappunto e un legittimo sconforto. Onde mettersi comodi in questo sconforto iniziale, io perdo un po’ di tempo con i miei pazienti a spiegare la necessità logica di questa incertezza, e anche, la necessità logica rispetto ai miei modelli di intervento di una terapia lunga. Se una persona viene in terapia, è per cambiare dei modi di abitare il mondo che non riesce a cambiare da solo. La terapia psicodinamica è generalmente molto ambiziosa e non si contenta di corregge questo o quel settore esistenziale, lavora invece sulle premesse che producono i comportamenti. In generale comunque – spiego ai miei pazienti – che la lunghezza della terapia ha a che fare con qualcosa di intimamente filosoficamente connesso alla nostra libertà nel mondo. Quanto saremmo liberi, se al primo discorso di un estraneo cambiassimo con agio i nostri modi di fare? La resistenza biologica al cambiamento è una garanzia del nostro libero arbitrio – è la biologia dell’identità. I nostri corpi recalcitranti al cambiamento, negoziano le trasformazioni con sacrosanta caparbietà.

Un’altra cosa però su cui insisto è, proprio in rispetto di questa cosa sacra che è la libertà, che potranno interrompere quando vorranno, che sono loro a portare se stessi in analisi e non è l’analisi a vincolarli. Spesso è già interessante raccogliere la reazione emotiva a questa prospettiva, perché rappresenta una prima testimonianza di fondo di come il paziente legge l’abitare le relazioni. Si possono tenere anche in mente gli stili di attaccamento. Persone con un attaccamento ansioso, o con un attaccamento sicuro, accetteranno di buon grado l’idea di una relazione di lungo corso, qualcuno ci si metterà comodo. Pazienti con uno stile di marca più evitante, tenderanno a guardare la cosa con perplessità e a frequentare i primi incontri con uno stile un po’ riottoso.  Ma non è difficile anche con questi pazienti avviare un buon lavoro. Non evitano questi pazienti le relazioni infatti – hanno una estetica delle relazioni diversa e piano piano riescono ad accomodarsi. Altri, spaventati dalla propria esperienza di dipendenza, sapendo che si scatenerà, chiedono subito a gran voce certezze precise. 
Questo discorso preliminare, aiuta a pensare bene a una cosa particolare riguardo la domanda della fine della terapia, ci fa capire che questa stessa domanda, assume un significato diverso da persona a persona. C’è la legittima richiesta di quel che concerne il proprio tempo e il proprio denaro, ma dietro, ci sono anche le ambivalenze che emergono a proposito della costruzione di un legame significativo, a proposito l’abitare qualcosa che può elicitare una qualche forma di dipendenza. 

Le psicoterapie psicoanalitiche sono lunghe, e qualche volta si interrompono malamente perché qualcosa non ha funzionato, oppure perché nella vita del paziente, qualche volta dell’analista, interviene un fattore di vita travolgente, che impone l’interruzione. Altre volte analista e paziente si fermano in una sorta di permanenza non evolutiva, e intervengono fattori terzi, se intervengono, a spezzare il legame.  In qualche caso invece rimangono insieme per una sicurezza e un’abitudine – ma in realtà esiste una percentuale bassa ma costante di casi- ogni analista ne ha qualcuno –  in cui ci sono pazienti con cui è opportuno non chiudere la terapia, che possono eventualmente cambiare approccio, ma che non possono stare senza, per i quali può essere intelligente raggiunta una certa soglia di buon funzionamento, ragionare su un basso voltaggio di mantenimento. Agli occhi dell’esterno, queste persone sono persone che temono l’autonomia, che sono in qualche modo pigre, o vittime di analisti che non vogliono rinunciare al loro guadagno. Io stessa a lungo ho considerato sotto questa luce questo tipo di situazioni. Invece con l’esperienza mi sono confrontata con persone veramente brave, forti, che mi hanno insegnato tantissimo, che sono sopravvissute a vicende indicibili,  e che malgrado il punto di partenza sono arrivati a fare cose impensabili all’inizio, veramente impensabili – ma hanno magari importanti problemi psichiatrici segnati da una evidente cronicità, per cui capisco che questo basso mantenimento è una cosa necessaria, per tutelare un funzionamento faticosamente raggiunto. 

Qui però mi voglio occupare invece delle terapie che fanno il loro corso, hanno la loro giusta durata, e devono avviarsi a conclusione. La terapia è una specie di città simbolica, fatta di vicende quotidiane, sogni, immagini, occasioni, exempla, e l’esplorazione di questa città a un certo punto sembra poter durare in eterno, perché le cose da visitare, volendo, non sembrano finire mai. Come stare a visitare un centro storico infinito, un museo archeologico sterminato, si dice, ma non finisce mai, non si arriva mai alla fine? Lo dico io me lo deve dire l’analista? E naturalmente, ogni terapeuta avrà il suo stile, per gestire questo passaggio delicato. 

Nelle terapie psicodinamiche questo pensiero della fine, se è diciamo funzionale al percorso emerge dalla diade come una specie di elemento terzo che si configura nella stanza, a volte arriva con un sogno. Altre con un pensiero e uno stile profondamento libero e autonomo. Altre ancora con un lapsus freudiano. Altre ancora con un sogno dell’analista che fa a proposito del suo paziente. Altre ancora il paziente dice sono pronto per chiudere. Molto molto raramente lo dice l’analista –  se lo dice,  meglio se a corollario di una delle ipotesi sopra descritte. 
In generale per me è buona norma, quando emerge dalla terapia la chiusura, la fantasia di chiusura, aspettare che si ripresenti, in modo più definito. A volte certe cose infatti avvengono e si dicono anche come via di fuga da un nuovo balzo in avanti, o come reazione punitiva e autodistruttiva rispetto a qualcosa che non ha funzionato – compreso un errore dell’analista. La relazione terapeutica ha di buono che in vitro riproduce dinamiche che sono all’esterno della stanza, e a volte anche gli analisti più accorti possono ricalcare le stesse dinamiche espulsive che i pazienti mettono in campo fuori. Quindi una prima volta che un paziente sogna o dice che bisogna chiudere una terapia, è bene ragionare intorno alle ultime sedute, al ritmo relazionale a cosa sta succedendo, perché è importante che il paziente veda cosa fa al suo campo relazionale – prima di abbandonarlo. Oppure per proteggere la terapia da una frattura dovuta a una reazione, e non a un cambiamento davvero profondo.  Trovo anche che,  resistere a desideri di chiusura dovuti a errori dell’analista, possan essere una occasione preziosa per entrambi,  salvo errori deontologicamente macroscopici, dare a una relazione la possibilità di guardarsi e correggersi è davvero una buona occasione.
Infine, quando emergono desideri di chiusura  –  bisogna semplicemente prendere tempo per vedere se questa via di uscita prende corpo.

Quando un paziente è pronto per la chiusura, paradossalmente regge bene questa attesa, e il desiderio di chiusura riemerge poco tempo dopo in modo ancora più chiaro e netto, per quanto non di rado con delle consapevoli ambivalenze. Quando sento dalla voce dei miei pazienti queste consapevoli ambivalenze e la preoccupazione tipo – ma se poi sto male posso tornare? – io capisco che sono pronti, che sono in sintonia con il loro se stessi del momento mi riportano la verità emotiva, e non si nascondono dietro a eccessi nevrotici. Non dicono io so fare tutto ho risolto tutto, non ho più bisogno di niente, ma semplicemente ho paura, o qualcosa di simile, ma sento il bisogno di mettermi alla prova.  A quel punto, la cosa ideale nel mio modo di lavorare, è fissare una chiusura studiando per bene i desideri del paziente, le sue aspettative, e facendolo negoziare con le mie, ma comunque un po’ in la nel tempo. La chiusura, il vivere una terapia di cui si vede una fine, è una esperienza clinicamente molto preziosa, perché si vive la capacità di gestire la separazione da un oggetto rassicurante, e nel novantanove per cento dei casi, i rapporti con gli oggetti rassicuranti sono stati temi essenziali della terapia.

Questo sentirsi pronti per la chiusura, è una cosa sottile da riconoscersi. 
Penso che si possa percepire, in quella piccola serie di prove difficili di cui sono costellate vite e analisi. Le persone vengono perché devono cambiare il modo di gestire queste prove difficili: per esempio sopravvivere a un uomo che sparisce. Per esempio imparare a non picchiare qualcuno ogni volta che ci fa essere incerti. Per esempio non sentirsi male quando si ha la disgrazia di avere un genitore cattivo. Gli esempi sono tanti e tante persone possono avere più questioni da imparare a gestire, vengono in terapia e fanno una terapia psicoanalitica perché devono trovare un assetto mentale diverso a monte, che una volta cambiato farà acquisire delle strategie dopo. 
Ci si sente pronti per lasciare una terapia, quando ci si accorge non solo che quel cambiamento è avvenuto, non solo che quelle strategie sono acquisite, ma che entrano in campo spontaneamente, con agio. A quel punto, non è tassativo ma frequente – a me da paziente successe – può pure capitare che si presentino in forma ridotta tutti i sintomi dell’inizio: sono le strategie dell’inconscio quando si sente l’odore di un vero cambiamento avvenuto. Il mio primo analista, Gianfranco Tedeschi, parlava di “terapia negativa”. Un altro buon motivo per prendersi un tempo giusto di separazione, e anche una prova generale di come spicciarsela quando vecchie modalità difensive dovessero ripresentarsi.

A quel punto si è pronti per avviarsi alla separazione. Una bella separazione, portata avanti con i tempi giusti, regala l’interiorizzazione di qualcosa di prezioso, che durerà nel tempo e agirà a terapia finita ancora di più, devo dire anche nei terapeuti. Le terapie che iniziano finiscono, per bene, con i loro tempi, sono come i grandi romanzi ben costruiti, danno nel tempo quell’affettuosa soddisfazione, senza che questo voglia dire che il terapeuta abbia davvero risolto tutti i filoni della trama esistenziale del suo assistito. Ma quel romanzo ha avuto la sua giusta forma. Il suo giusto sviluppo.  Certo perché questo avvenga bisogna curare la chiusura, non lasciarla avvenire in preda alla sciatteria o alle piccole vendette di transfert e controtransfert, non lasciare che le venature della separazione rimangano senza decodifica.  Chiudere  bene una terapia permette a quella terapia di agire al meglio quando il terapeuta non sarà più immediatamente accessibile.

Scrittrici e industria editoriale (solo un po’ su Siti)


A ridosso del premio Strega è uscita questa intervista a Walter Siti, che per una breve frase a proposito delle donne scrittrici, oggi più premiate che in passato, è stata largamente citata, tirata per la giacchetta, fraintesa, o largamente contestata. Io ci sono arrivata dopo aver letto alcuni pareri innescati, e quasi sono rimasta delusa – la frase è modesta rispetto al clamore suscitato. La pietra dello scandalo è infatti il seguente passaggio: mi dicono che vincerà una donna, sarà così per altri due o tre anni, poi si tornerà a un regime normale.
Di poi, a seguito delle polemiche suscitate, Siti ha diramato una piccola rettifica, in cui riconosce che ci sono al mondo tante ingiuste discriminazioni delle quali si rammarica. Solo aggiunge  – lo immaginiamo con il suo tono pacato di sempre – che si augura di poter tornare  a concentrarsi sull’opera letteraria, indipendentemente dal genere, dall’orientamento sessuale o dall’etnia di chi l’ha scritta. L’ammenda è sincera, ma come sempre succede è l’ammenda di chi rimane in quell’orizzonte di senso. Tornare al tempo in cui contava la letteratura e non il genere. 
Il dibattito è rimasto vivo a proposito di quel “tornare”.

I commentatori si sono divisi in due squadre. Una squadra che ha criticato Siti di essere superficiale e sessista, reo di aver sostenuto che le donne sono oggi premiate in quanto donne ma non per merito, e un’altra che lo porta avanti perché in realtà Siti sta difendendo l’importanza della qualità estetica non sacrificabile alle istanze della politica. Le due squadre inoltre si fronteggiano anche su un’altra faglia del dibattito: ossia che prima di questa ondata di scrittrici premiate ci fosse una discriminazione di genere, o che in realtà non ci fosse.

Amo molto Walter Siti, e immagino di cosa sia figlia quella dichiarazione, a quale postura nel mondo sia correlata. Siti scrisse un bel libro “Contro l’impegno” qualche anno fa in cui argomentava la sua allergia alla politicizzazione dei contesti culturali e letterari – un libro piacevole con tante cose intelligenti, ma in cui si azzittiva una corda sociologica che in lui altre volte vibra in modo molto forte. Siti faceva infatti un bell’excursus del cambiamento sociale che ha portato alle mutazioni antropologiche nel mondo dei lettori e dei committenti, ma poi appunto si fermava, come non cogliendo le conseguenze delle sue stesse premesse.  Personalmente – riconduco questa postura politica di Siti a una intera classe di oggetti psichici che mostra di non capire e di non condividere, di afferrare solo razionalmente. L’omosessuale è per lui erotico se non è iscritto in una rete di diritti, la sua vita è pervasa dal desiderio se rimane ostile all’ordinarietà, anche i riscatti sociali o le assenze di riscatto che racconta in molti suoi libri con intelligenza e tenerezza per il reale hanno il suo amore perché il fallimento giuridico e collettivo è garantito. Dunque perché capire le donne che vogliono una normalità di potere da cui sono estromesse? Che noia che barba. Insomma, è pur sempre un figlio di Pasolini. L’oppresso ci piace di più se rimane oppresso. Ci fa fare bei romanzi e soddisfa la domanda di tragico a cui siamo crudelmente sottomessi. Quelli che prendono sul serio il centro della scena gli risultano irritanti – specie se vi riescono. 

E’ Siti. Magari la lettrice forte un po’ si dispiace, sa che quando in quella stessa intervista si barcamena nelle domande sul suo ultimo protagonista  – un misogino quasi cinematografico – basculando tra rassicurazioni tipo: è finzione il personaggio vive per conto suo, e disinvolte rivelazioni del tipo è un mio alter ego, la prima è una verità programmatica, la seconda è una verità emotiva, e quindi bisogna un po’ rassegnarsi. Però forse, è utile districare un po’ di fili, di questo grande nodo sociologico, che è la questione femminile nell’editoria, e che si aggroviglia per altre questioni che vi si intrecciano, le questioni femminili fuori dall’editoria, e i cambiamenti che hanno connotato l’industria culturale negli ultimi decenni. Ma soprattutto la funzione che ha richiamare la questione femminile oggi in qualsiasi faglia del dibattito pubblico.

Qualche giorno dopo questa intervista, allo Strega, viene premiata Donatella Di Pietrantonio, perché il suo romanzo satura le grandezze richieste in questo momento per assegnare il premio. E’ una scrittrice giudicata da molti lettori interessante, e risponde allo standard richiesto dallo Strega. Non è probabilmente migliore o peggiore di tanti vincitori del passato – di questo o di altri premi. Quand’anche sia stata nominata per un implicito sistema di quote, stante il grande numero di scrittrici di cui oggi disponiamo – ciò non dimostra niente in merito a un eventuale sacrificio dell’estetica, perché il sistema di quote non soverchia mai le categorie di fondo delle nomine, semplicemente le declina per quota. Vale per lo Strega, vale per la politica.
 In politica quando vince una donna – per quote o meno – fascista, non vince perché è donna, ma perché c’era l’elettorato teneva bisogno di fascisti – che ci piaccia o meno. Se non c’era lei vinceva un fascista maschio. Ugualmente per le nomine negli uffici: quando si decide di mettere al vertice di un’azienda una donna che appare come facilmente manipolabile, non è che se ci si metteva un uomo, si prendeva uno incorruttibile. Eppure nonostante la nostra fulgida tradizione di servi del potere, ogni volta che c’è una donna a capo di qualcosa, è il suo essere donna la prova della sua strumentalizzabilità. 

Ugualmente, sono sui social da quando sono stati inventati, e leggo recensioni e giudizi da quando leggo romanzi – oramai ahimè decenni: e in tutti questi decenni, su tutti i supporti possibili, lettori, critici, librai mi hanno ripetuto fino all’ossessione quanto fossero insoddisfatti della qualità dei romanzi premiati – con encicliche inusitate sul potere delle grandi case editrici di piazzare i propri alfieri,  tirate micidiali sul marketing come demone che costringe il volgare mondo delle lettere. Questa nenia è andata avanti per decenni – con sensazionali esplosioni internazionali alle altezze del nobel. 
Ma ora ci sono le donne, e abbiamo un nuovo deus ex machina del frignare collettivo. Eh signora mia la qualità non è premiata, dobbiamo tornare ai bei tempi che furono. Premiano le donne! L’estetica è tanto tanto sacrificata. 
Un fenomeno non tanto diverso da quello che si osserva ad altre latitudini: un certo gruppo sociale produce degli oggetti destinati a essere esaminati e criticati. Il tasso di scontentezza è costante, è aprioristico è fisiologico al momento storico, ma fino a che sono gli uomini a produrre quegli oggetti culturali, la questione è da attribuire alle sociologie più bizzarre, alle arguzie più sofisticate. Come vince la Di Pietrantonio, sta il problema delle quote rosa.

In realtà, c’è un movimento che agisce in parallelo nei diversi contesti e gruppi sociali, ed è la democratizzazione degli accessi e delle competenze, con il dettaglio interessante, per quel che concerne il mercato editoriale dei libri per cui in realtà negli ultimi decenni, nonostante la concorrenza di internet, i problemi posti dalla pirateria, etc, il numero di libri venduti è sempre in aumento. Sperando di non fare un discorso eccessivamente grossolano: veniamo da un tempo in cui esisteva una prestigiosa editoria che contava su un pubblico colto quanto elitario, dove i pochi lettori erano in gran parte i pochi eletti che potevano arrivare agli studi superiori, fino alla grande esplosione dei tascabili negli anni sessanta, quando si comincia ad allargare ad altri la grande piattaforma della cultura del libro, e da allora in poi questa piattaforma si è sempre più allargata, con la democratizzazione della fruizione e anche della produzione, con la fioritura di generi e sottogeneri, con la trasformazione in qualcosa di molto ampio e di molto variegato dell’industria culturale.  Ci sono molti molti più libri, ci sono tutto sommato molti più lettori, e la grande città dell’editoria ha subito una modifica importante, anche nella sociologia delle sue dirigenze, 
Questa modifica importante ha visto diversi cambiamenti, sociologi e di classe, ma uno di questi cambiamenti ha riguardato l’ingresso delle donne.

Agli albori del libro – c’erano: molte lettrici, pochissime autrici, pochissime donne nei ruoli chiave dell’imprenditoria editoriale. Se le donne non avevano infatti  – accesso all’istruzione, accesso alle professioni, ma rimanevano confiscate nel ruolo di cura, le donne non potevano certo accedere all’editoria. Quando le cose sono cambiate per loro, quando hanno cioè cominciato a leggere in tantissime, scrivere in tante, lavorare in tante, il sistema culturale vigente, ha resistito molto al loro ingresso, e si è assistita a una oggettiva discriminazione – si è assistito e a diverse latitudini, si continua ad assistere. Ossia si è cominciata a imputare una povertà intellettuale, una pochezza estetica, o anche una modesta scaltrezza professionale, perché si dava per scontata la sociologia e la cultura delle donne di cinquant’anni prima alle donne di cinquant’anni dopo. Ed è una cosa che si continua un po’ a fare, per cui pesa sempre una pregiudiziale sui lavori di diverse autrici, soprattutto ai loro esordi. C’è sempre una specie di sospetto di genere per cui, si presuppone una facilità, una semplicità di costrutto in quanto donne. 

Nel frattempo però si è assistito a una democratizzazione del mercato editoriale per cui sono arrivati al successo e al numero importante di vendita libri che sono percepiti dal pubblico colto come non interessanti, non davvero sofisticati, non davvero letteratura, ma che fanno botteghino e che il sistema editoriale giustamente protegge.  Tra quei libri e quelli che vincono i premi, non direi che ci sia una rigida scissione, ma un pulviscolo di autori accessibili, con prose anche mediamente interessanti o altre meno, e alle volte alcune di queste prose più facili più pop, arrivano a essere premiate. Non conosco Donatella di Pietrantonio, che invece è con ogni probabilità una raffinata autrice – mi fanno da garante per lei lettori forti che stimo – ma nelle vecchie edizioni dello Strega, ho visto premiati diversi libri che nella migliore delle ipotesi ho trovato, scorrevoli, piacevoli. Alcuni sono scritti da donne, molti sono scritti da uomini. iIl cicaleggio intorno all’editoria quando diviene maschilista propende per la teoria che siano tutti scritti da donne.

Questo è il mio punto. Quando in questo paese si soffre l’abbassamento di uno standard desiderato – abbassamento dovuto a tanti fattori, sociologici, di classe, politici, giuridici, la propensione nazionale a frignare, come prima arma difensiva nei più diversi ambiti, chiama sempre in causa le donne. Quello che è un mutamento macroscopico nel costume collettivo, viene in modo distorto attribuito alle donne, perché le raffinate e le ignoranti, le complicate e le semplici, le argute e le pavide ora partecipano al’industria culturale, ma si pensa che siano tutte ignoranti, semplici e pavide.
Penso allora che la questione oggi che si pone all’editoria non riguardi esattamente il problema delle presunte quote rosa, le quali dimostrano semplicemente che sono cambiate le regole di reclutamento nelle sfere del potere, di qualsiasi potere si tratti.

Note su “Baby Reindeer”

E’ uscito in questi giorni Baby Reindeer su Netflix, una miniserie che racconta una delle possibili varianti di stalking. Così almeno è stata percepita: per me invece devo dire, è una interessante autobiografia di una persona che ha molto sofferto, per un disturbo mentale importante, e racconta in modo molto intenso ed efficace di cosa fa della sua realtà e dei suoi rapporti. E’ un ottimo case study quindi sull’ingaggio con oggetti psicologici invasivi e disturbanti, le modalità con cui certo oggetti vengono proiettati su psicologie conformi a quella proiezione. E’ davvero una serie utile per esempio per gli specializzandi in psicoterapia o per i laurendi in psicologia. 
In una certa misura, racconta abbastanza bene anche la fenomenologia degli stalker, meno la loro psicologia, e ancora, la fenomenologia di certi stalker di un sottogruppo, e anche in questo la trovo un bel prodotto. Per esempio è efficace come è rappresentata la stolida dedizione a senso unico dello stalker, o il fatto che normalmente per uno o una stalker qualsiasi risposta aggressiva è percepito come rinforzo.  E’ ben descritto quel modo psicotico di cercare di raggiungere l’altro, invadendolo, scioccandolo, abusandolo. Mi pare dunque che dal mio punto di vista, i personaggi della miniserie sono abbastanza ben scritti. 

Professionalmente mi è piaciuta molto, personalmente meno – perché soffre di un peccato ricorsivo, di quando si fanno telefilm o film che parlino di queste cose nel dettaglio: il dettaglio della dinamica delle parti fa si che il lavoro parli solo della dinamica delle parti, la storia è solo quella storia, non c’è arte, non c’è letteratura non c’è metafora di niente, il desiderio di esorcizzare un fenomeno pervade la domanda di senso. E forse è questo l’unico aspetto non riuscito del telefilm: il narratore voleva dare un senso all’accaduto, ma il suo slancio letterario è troppo flebile, lo slancio politico nullo, lo slancio psicologico si e no sufficiente, per dare un senso. A stento spiega come mai lui si incastri in certe dinamiche – ma neanche tanto. Spiega per bene il come succede, ma non il perché. Non c’è molta archeologia della vicenda. Solo fenomenologia. E quindi insomma è un prodotto per me moderatamente interessante, seppur con dei meriti.

Ho però avuto desiderio di scrivere queste righe, perché ho notato che la serie ha avuto presso il pubblico un notevole impatto, e ha fatto pensare a tutti che dicesse tante cose sullo stalking, e su come normalmente si costruisca la relazione tra stalker e stalkerizzato.  Le persone hanno ragione, perché ci sono diversi aspetti narrati in questa serie che sono ricorsivi nel fenomeno:  la percezione del malessere nell’altro, la possibilità di riconscerci delle proprie parti fragili, il desiderio di aiutare lo stalker, il sentimento di pena per lo stalker. E simultaneamente questa ossessione cieca di cui ci si accorge di essere oggetto. 
Tuttavia, non vorrei che passasse  – come temo – questo fraintendimento, che è molto incoraggiato diciamo da una specie di psicologia popolare facilitata. Il fraintendimento per cui lo stalking sia una iattura che possa capitare soltanto a psicopatologie altrettanto franche e complementari, le quali ci si infognano perché appunto si tratta di due assetti che si incastrano. Ecco. Non è così.
La cosa esasperante dello stalking è che non è quasi mai così.

La maggior parte delle storie di stalking ha infatti degli itinerari diversi. Ci sono diversi tipi di stalking: c’è quello legato alle figure famose, quello legato a delle figure professionali percepite come di potere  e verso cui lo stalker sente una dipendenza– psicoterapeuti in prima linea, ma anche medici, avvocati e amministratori di condominio, e poi c’è la forma più diffusa di stalking che è quella che si materializza in seguito a una relazione che si conclude.  In generale però quello che accade anche in questo ultimo caso è che una persona comincia una relazione con un’altra, magari in un momento di fragilità congiunturale e transitoria, il futuro o la futura stalker mettono in campo attenzioni fusionali, controllanti e iperinclusive che fino a che sono accettate non danno luogo a stalking. La stalking si configura quando il partner chiude la relazione esce dalla fusionalità in qualche modo esce dal gioco, solitamente percependo ina diversità come dire, ontologica tra se e il partner che  – diversamente da come rappresenta il telefilm  – avverte come asimmetrica, fuori da una complementareità. Spesso c’è la pena e il dispiacere, per il soggetto persecutore, ma quando questo soggetto comincia a invadere gli spazi vitali, a togliere libertà a minacciare i congiunti, a fare azioni pericolose, buona parte delle vittime attiva un senso di separazione. Se contatta degli stati di angoscia, dissonanti, questi non lo portano a entrare come dire a un’ossessione inversa. Molto banalmente, le persone stalkerizzate vogliono uscire da questo campo angosciante al più presto, perché vivono la straniante sensazione di abitare un incubo che non gli appartiene. Possono provare grandi sofferenze e soffrire terribilmente perché lo stalking è estenuante, bisogna cambiare tutte le cose della propria vita, e hanno la sensazione di non farcela. Spesso non fanno fatica a chiedere aiuto alle forze dell’ordine, non quanto meno per motivi psicologici,   perché è forte la percezione di avere a che fare con qualcosa di anormale, di insensato. Qualche volta possono contattare altri stati di malessere collegati alla loro psicologia e a cosa proiettano  – non solo addosso allo stalker ma alle figure di aiuto, Però il gioco di specchi, che inscena il telefilm è più peculiare di quella psicologia del protagonista che della casistica dello stalking. Oppure più peculiare della casistica delle coppie in cui c’è violenza di genere, e la partner non riesce a lasciare il partner violento, che delle coppie dove uno riesce a chiudere la relazione. La chiusura è infatti – un atto semantico che segna, questo voglio dire, uno scarto di funzionamento di cui la vittima è sempre piuttosto consapevole.

Infine.
Grande merito di questa serie, è aver rappresentato una storia dove la stalker è una donna, e lo stalkerizzato è un uomo. E’ un merito perché le donne stalker esistono – ho avuto pazienti che ne sono state vittime – e si tende a non parlarne, e perché aiuta molto i maschi a immedesimarsi nelle vittime, che comunque statisticamente sono per lo più  – donne.
Però questo merito, non deve farci perdere di vista un problema oggettivo, ed è l’intreccio che spesso lo stalking ha con certi rinforzi culturali quando la vittima è una donna. Se la stalker è donna è la vittima è un uomo, l’assetto patologico della stalker salta all’occhio perché si distanzia grandemente dai canoni culturali di comportamento previsti dal sistema sesso genere della sua cultura. Quello che voglio dire è che Martha, la protagonista di Baby Reindeer, suona lampantemente svitata in un film ambientato nell’occidente, perché fa cose che proprio stonano con le normative comportamentali della donna occidentale, a qualsiasi latitudine di classe. A generi invertiti, anche se oggi per fortuna un po’ meno di un tempo – l’uomo che si comporta come Martha, è meno concepibile come disfunzionale, perché l’insistenza maschile è stata a lungo un codice culturale condiviso, problema per cui – per fortuna oggi meno di un tempo – capita che  le forze dell’ordine non decodifichino  correttamente le denunce che a loro pervengono. Anche per le vittime a volte queste modalità risultano in una prima fase non facili da decodificare. Questo comporta una serie di difficoltà addizionali, l’insistenza è amore? A volte sembra essere chirurgico il compito di discriminare le due questioni.

Consiglio, allora, per capire bene questa questione perturbante dell’amore che non si capisce se è amore o follia, desiderio o ossessione, di leggere un bellissimo libro di Orhan Pamuk, il museo dell’innocenza. E’ un libro che non vorrrebbe affatto parlare di stalking, e che in qualche modo lo romanticizza, che forse nel suo essere turco non lo concepisce veramente come una lesione, o forse si, ma è il grande romanzo di una ossessione, di un uso cannibalesco e patologico dell’altro, culturalmente protetto e quindi in quanto tale non correttamente diagnosticato, e secondo me fa capire bene questa complicata zona di confine, la chirurgica area viscerale dove si dovrebbe discriminare sentimento di chi vede l’altro, e proiezione psicotica di chi ci mette parti sopra da reincorporare.  Si ha la sensazione che Pahmuk si identifichi con il persecuotore, piuttosto che con la povera vittima. Ma siccome si tratta di Pamuk, fa proprio quello che dicevo, manca alla serie – e il museo dell’innocenza è anche un romanzo che parla di altro, della narrativa, della ricerca di senso, dell’ossessione della scrittura, del rapporto tra identità  scrittura e memoria, per cui lo stalking diventa la metafora dell’ossessione alla ricerca di qualcosa di se perduto ed evanescente, la tragica e violenta lotta di chi ama una realtà che lo respinge, e che non può possedere del tutto, dove c’è la totalità del proprio mondo interno. Quel senso di disperata incorporazione è vero lo sento nello stalking, e simultaneamente è vero mi ricorda un po’ un certo fuoco che sta dietro l’azione della scrittura.

Confusi appunti personali partendo dal velo islamico

(Premessa. 

In questi giorni per il libro a cui sto lavorando sulla psicodinamica delle violenze di genere, sto leggendo tanto sulle diverse condizioni delle donne nel mondo. Viaggio si può dire, soffermandomi tramite libri e film o articoli, su diverse realtà storico culturali.  Ora mi sono fermata nel grande oceano dell’Islam, e ho trovato molti argomenti  che mi hanno fatto riflettere. Diversi film alcuni articoli, diversi libri. Mi sono mossa intorno alle diverse forme di velo per le donne islamiche. Il libro che mi è piaciuto di più e che mi ha dato veramente tanto pane per riflettere è però quello di Renata Papicelli ll velo nell’islam: storia, politica, estetica. Uscito nel 2012, ma ancora reperibile. Lo consiglio a chi volesse farsi un’idea un po’ più sofisticata del nostro comune approccio. Io parto da questo libro qui, oltre che da una mia esperienza privata, per quanto remota. )

Le posture italiane su questa faccenda del velo hanno come aspetto di fondo una percezione monolitica del grande oceano islamico, anche negli occhi di pareri mediamente colti. Il grande oceano islamico, che ha arcipelaghi nel nostro occidente, e storie nazionali diverse l’una dall’altra, con organizzazioni culturali interne, e storie sociali ed economiche molto diversificate, è letto come un unico mondo, dominato da una visione religiosa, e molto maschilista. Il maschilismo dell’Islam, è una benedizione per i maschi occidentali, che nel biasimo delle gerarchie sociali che il velo incarna ai loro occhi, possono prendere due piccioni con una fava: rivendicare un orgoglio mediamente nazionalista che fortifichi la percezione della propria identità culturale, e passare per persone moderne e rispettose delle donne, nello scandalizzarsi per la vita che fanno quelle degli altri, nonostante mediamente delle difficoltà delle proprie non amino occuparsi eccessivamente. Le donne islamiche con il loro velo, sono inoltre, dai più progressisti, narrate come prive di agency, come prive di un discorso culturale loro proprio, e di una loro decodifica simbolica nel gesto cosciente di prendere il velo e agire con il velo, e una cospicua dose di eurocentrismo, fa pensare di defoult che, poiché porteranno tutte il velo, tutte quante poverine stanno a casa e non lavorano in una situazione subita e vessatoria.
Ora, fornire una mappatura completa della situazione delle donne islamiche non è in mio potere, non ne ho le competenze. Qui voglio solo sottolineare alcune cose da sapere, perché sono per me un punto di partenza per un ragionamento, il cui fine ultimo non è tanto riguardante il giudizio sulle donne mussulmane, quanto una riflessione generale per noi tutti.

Intanto alcune questioni di fondo.

  1. Nel mondo islamico ci sono: moltissime donne che non portano il velo. Moltissime che portano il velo, con un numero consistente di donne, forse la maggioranza, in base a una scelta ponderata e ragionata, sul significato attribuito al velo. In alcuni stati c’è l’obbligo del velo – per esempio Iran, Afghanistan, fino a poco tempo fa Arabia Saudita, in altri è stato per esempio proposto l’obbligo di non portarlo nei luoghi pubblici  – come per esempio in Tunisia – scatenando nella popolazione reazioni ambivalenti.
  2. Nel medesimo mondo islamico, anche in contesti più maschilisti e con derive culturali che possiamo definire misogine – le donne lavorano, sono nelle università, hanno carriere, anche se in diverse circostanze le carriere più prestigiose sono precluse. In buona parte del mondo islamico (ma questo aspetto mi pare trasversale a tanti contesti culturali): lavorano moltissimo in contesti informali, non rigidamente normati, quindi nell’agricoltura e magari nel commercio – dove in qualche caso riescono anche a costruire delle realtà economiche importanti. Rimane il fatto che trattandosi di contesti informali, sono contesti non giuridicamente tutelati. Contro una Tunisia che ha una legislazione molto progressista per i diritti delle donne, in molti aspetti equivalenti a quelli degli uomini, o situazioni accettabili come quella per esempio della Turchia oggi, ci sono diversi stati dove o c’è un vuoto normativo, oppure ci sono leggi di stampo patriarcale ispirate – teoricamente – al Corano.
  3. Credo che sia utile distinguere: le società islamiche che si muovono intorno a queste questioni rispettando movimenti così come vengono dal basso, e le società islamiche che invece normativizzano queste questioni imponendo delle regole dall’alto. Ai miei occhi quindi: il velo delle Iraniane la copertura totale delle Afghane, la nera divisa delle donne dell’Isis, sono molto diversi dal velo che mettono le mussulmane in occidente per esempio, o in luoghi quali Egitto, Algeria, o diversi paesi del medio oriente. Ma certo bisogna anche guardare alle cause che hanno permesso la costituzione di questo tipo di regimi.

In particolare individuo due aspetti che meritano riflessione, una riflessione che trascende la disamina del velo nell’Islam e della situazione delle donne islamiche.
La prima riguarda la semantica dell’abbigliamento occidentale, e il mondo che ha potuto evocare agli occhi dei non occidentali, nel tempo. 
Per molto tempo cioè il nostro stile di vita, simbolizzato con i nostri modi di vestire, compresi quelli delle donne, ha rappresentato per tanti mussulmani e dobbiamo dire tante mussulmane, che simultaneamente vivevano in condizioni economiche e talora climatiche decisamente svantaggiose rispetto alle nostre, una possibilità esistenziale offerta da una cultura avvertita come invasiva, potente, sfidante forte economicamente dominante, quindi a suo modo vincente. Questo nostro mondo, questa nostra estetica, queste nostre gonne corte, e questi nostri alcolici, questa nostra laicità sono stati recepiti come un’occasione, un desiderio, un vanto, una sfida, una promessa, un’illusione e una delusione. Per alcuni il nostro stare al mondo qualcosa da ottenere, per altri qualcosa verso cui non essere acquiescenti, per molti altri ancora qualcosa per cui servono tanti soldi e non ce ne sono –  e dunque il nostro sistema esistenziale è stato un sogno che ha tradito e ha lasciato al freddo, a stringersi nel velo.

L’uso del velo come oggetto identitario ha in molti casi a che fare con questa vicenda del sogno occidentale troppo lussuoso e non di rado troppo espulsivo. Le giovani che portano il velo in paesi europei ad alta immigrazione, dove comunità islamiche si ammassano in periferie non sempre salubri e non sempre seguite al meglio dai servizi sociali, si capiscono meglio intercettando in loro una risposta difensiva e identitaria, anziché congetturare un’eventuale e in realtà non sempre realistica imposizione da parte dei familiari del velo – secondo una dinamica minoranze/maggioranze che è simile anche per altri gruppi culturali.  Come molti simboli  e rituali delle comunità ebraiche per esempio, il velo è per un verso rivendicazione reattiva, ma allo stesso tempo genuina occasione per ripensarsi, rielaborare la propria storia il senso dei propri oggetti e pensieri. Ugualmente, le donne di paesi facciamo conto di area magrebina, soggette alla boria coloniale, possono spesso aver scelto il velo, e una serie di questioni correlate nello stile di vita, come rivendicazioni autonome rispetto a un’avanzata culturale percepita non come liberatrice ma come usurpatrice.

Il secondo aspetto riguarda, l’organizzazione del sistema sesso genere nel mondo islamico, di cui il velo diciamo è il simbolo più importante per noi. In questa organizzazione sesso genere, esiste un luogo amato, sacro, privato,  creativo e affettivo, emotivo , relazionale ed erotico – che è il luogo della casa e dei corpi liberi nella casa. Al centro di questo mondo, ci sono le donne i loro figli le loro relazioni, la vita nello spazio sacro della casa. Questo spazio sacro deve essere privato, libero, non giudicato, e il velo diventa in sostanza, la protusione protettiva di quello spazio sacro, il velo insieme all’abito che tende a coprire il corpo della donna, avvertito come da proteggere. E’ stato interessante per me scoprire che esistono diverse correnti all’interno di un grande femminismo islamico, una delle quali interpreta il velo come coercizione alla non azione, semantica del maschilismo e dell’assenza di libertà, mentre un’altra interpreta il velo come oggetto identitario da rivendicare, e strumento di protezione che consente alle donne di muoversi liberamente, di agire e dire cose senza che il loro corpo desti attenzione. Agli occhi di queste femministe islamiche, il non essere coperte delle donne occidentali le rende succubi del maschilismo di marca occidentale. Le donne occidentali devono continuamente sottostare alla performance del corpo sessuato e attraente. 

Da donna occidentale molto molto amante delle possibilità di vestirmi che offre il mio mercato e il mio orizzonte culturale, avverto sempre con molto fastidio qualsiasi femminismo islamico o occidentale che sia, che in modo sessista mi narra come oggetto parlato dal contesto e succube del desiderio maschile, e non come soggetto che vestendomi in un certo modo agisce simultaneamente su più livelli. Agisce cioè la sua sfera sessuale, decidendo se sedurre o meno, essere ammiccante o meno, e sopportando eventualmente la considerazione di qualcuno che possa dire – hai cinquant’anni stai fuori dal gioco del sesso, ma anche la sua sfera culturale e diciamo pure di classe, soggetto che fa sapere cioè quando si veste a che mondo appartiene, che gente frequenta, cosa pensa di tante cose. In quanto soggetto occidentale il mio personale è politico e penso di poter portare la mia soggettività privata nella sfera pubblica. 
Di contro, trovo altrettanto sessista raccontare le donne islamiche come abitate e succubi di un codice, salvo fatto il caso di alcune nazioni dove questo codice è imposto per legge. E penso che sia interessante rispettare la rinarrazione la riconfigurazione di un oggetto simbolico, come il velo una sua sorta di ricostruzione postmoderna e riproposta in modo politicizzato. Questa cosa la trovo interessante. 

Tuttavia, ragionare sulle donne islamiche il sistema sesso genere nei vari segmenti del mondo islamico, mi ha fatto mettere a fuoco meglio cosa rende le culture che io considero maschiliste per me problematiche politicamente, più di quanto siano le culture con apertura femminista. Il gradiente che varia di intensità è quello che divide il pubblico dal privato. Più maschilista è un progetto politico, più il privato è separato dal pubblico, mentre più un contesto sociale ha aperture femministe più il privato è mischiato con il pubblico legittimato e normato e quindi protetto. Di questo privato sono considerate principalmente titolari le donne, perché potendo essere madri sono quelle che generano privato, generano campi relazionali, in coloro i quali non possono generare con il loro corpo – gli uomini –  generano il pensiero  di essere soggetti di un potente campo gravitazionale, avvertito come sacro per un verso – pericoloso per un altro. Per cui, mentre il velo è un oggetto simbolico che muoversi in diversi contesti – società gravemente maschiliste fino a quelle misogine che cioè puniscono le donne per il potere che dimostrano, si somigliano tutte grandemente. 

Di contro esiste anche un’altra cosa che è importante sottolineare, a cui mi ha fatto pensare un imperfetto ma davvero piacevole e soave film – Barakah meets Barakah, del regista Mahmoud Sabbagh.  Nelle intenzioni del regista questo film è un film sulla morte dello spazio pubblico, che deve parlare di uno spazio pubblico desertificato, perché illecito, e lo fa parlando della complicata storia d’amore tra un impiegato comunale e una ricca instagrammer nella segregazione sessuale dell’Arabia Saudita. Dove la cultura tiene separati i generi in modo radicale e rigidamente gerarchizzato, a non essere liberi sono tutti.

l’epopea del super – io

Io es e super Io/passato e presente

Tra i concetti che maggiormente sono filtrati nel nostro lessico comune dalla teoria freudiana, c’è quello di Super io, e in generale tutta la cosiddetta seconda toponomastica freudiana. Se infatti in una prima suddivisione delle aree della personalità, Freud aveva parlato di Conscio Preconscio e Inconscio, a partire dal 1923,  con il libro L’io e L’es, introduce una nuova tripartizione: tra io es e superio, che avrà un grande successo, scavalcherà il lessico degli addetti ai lavori, e precipiterà nel  bagaglio lessicale della cultura media, diventando l’ambito, almeno per alcuni di alcune, in cui effettuare nuove riflessioni, e da cui partire per nuove teorie sociali. 

Nella accezione condivisa di questa toponomastica freudiana: la psiche dell’individuo avrebbe tre grandi regioni. L’io che riguarderebbe le caratteristiche della personalità sotto il dominio della coscienza, l’inconscio che riguarderebbe pensieri sentimenti fantasie e pulsioni che nella coscienza non sono chiaramente percepite, e che alla fine corrisponderebbe maggiormente all’area delle pulsioni e dei desideri, infine il super io che sarebbe il luogo dove si introiettano compiti, leggi doveri e obblighi, e che guiderebbe materialmente le azioni. 

 Ora con il beneficio della sintesi, notiamo che nel nostro pensare collettivo: all’io si associa il pensiero, all’es si associano i desideri e i pensieri illeciti, al super io il dovere e il senso di colpa. Ne consegue che possiamo osservare come ad oggi: l’io grosso modo sia dato per scontato, l’es goda di grande popolarità e continui a essere molto cool, il super io, invece, goda di pessima stampa, sia passato di moda, e se proprio si deve parlare di super io è perché porta rogna. Il senso di colpa infatti, la rogna princeps in dotazione dal super io, la pena psichica che infligge quando non si ascoltano le sue richieste, è considerato ad oggi – un nemico del popolo.

La vecchia tripartizione freudiana descriveva l’organizzazione di una psicologia individuale,  che emergeva in una storia socialmente molto definita nei ruoli e nei compiti psichici all’interno della famiglia, con regole piuttosto chiare in merito alla puericultura. Il titolare di questo triumvirato nasceva infatti come bambino in mezzo a una selva di bambini, lui come gli altri generato da una madre, che si occupava per l’appunto del generare, del nutrire e del fornire cure affettive, e di un padre che invece, avendo da mantenere sul groppone la moglie e la mandria di pargoli, stava fuori casa, teneva tante responsabilità, era l’uomo del mondo delle regole e della legge. Quindi molto grossolanamente nella psicologia di allora si riteneva che, l’andazzo psichico con cui il soggetto gestiva l’affettività il desiderio e il diritto a desiderare molto aveva a che fare con la qualità dell’accudimento materno, mentre l’introiezione del senso del dovere, di responsabilità e il rapporto con l’etica avesse molto a che fare con la qualità della presenza paterna. Laddove poi l’uno o l’altra fossero stati grandemente inefficaci l’incompetenza psichica si allargava a entrambi i fronti. 

Padre, super io senso del dovere, sono andati fortissimo per tutto il novecento, fino direi le soglie del sessantotto, per una ideologia dell’esperienza e della percezione di se quotidiana adatta a una antropologia dominata dalla povertà, dalla rinuncia, dall’impossibile esercizio del desiderio. Non c’erano abbastanza soldi per rispettare le proprie ambizioni. La realizzazione di un sogno di se – artificio retorico oggi ampiamente sostenuto – era percepita come un giocattolo regressivo e bizzarro più che un progetto lecito, e l’osservanza della legge e della norma morale condivisa di contro, diventava l’unico ritorno narcisistico di cui poter fruire blandamente. Le figlie si accollavano la prole, i figli i lavori di merda, i matrimoni saldature eterne e senza ritorno, e ci si poteva insomma vantare con se stessi di essere gente ammodo – mentre l’area del segreto e della perversione si prendevano nell’ombra modeste e misteriche rivincite. Bordelli, sotterfugi, riviste nascoste sotto ai materassi, relazioni omosessuali in posti esotici e lontani, orge in festini appartati, calendari sull’armadietto della palestra. Ma anche – molto molto desiderio disperso e disperato.

Il sessantotto, il boom economico, la fioritura di un benessere che almeno nel primo mondo non ha mai avuto precedenti, unitamente al crollo delle nascite, hanno messo in crisi l’organizzazione esistenziale tarata sul potere del superio, e hanno messo al centro un’idea psichica di io intessuto di es, dove il piacere il benessere sono divenuti al centro della retorica esistenziale, fino all’assurgere a nuovo imperativo kantiano. Sii il tuo io. Ma anche intercetta il tuo es.  Le madri delle pubblicità novecentesche erano ossessionate dalla responsabilità verso la prole, quelle di oggi sono assediate dallo standard del divertimento garantito, rispetto cui la prole non deve rappresentare un argine, e guai a te se lo temi. I figli diventano pochi, pochissimi, l’emancipazione frettolosa dai genitori qualcosa che può essere subordinato all’idea di una realizzazione di se che vada sotto l’egida della mimetica realizzazione dell’ideale di se. In aggiunta a ciò l’aerea possibilità di raccontarsi come si vuole essere visti, e di narrare i mondi come li si vorrebbero abitare, dataci poi in dono dall’avvento di internet e dei social, per cui socializziamo indefessamente i nostri progetti esistenziali, ha dato alla teoresi superegoica il colpo di grazia. Il senso di colpa è diventato un accessorio disturbante, una spina nel fianco, qualcosa per cui andare eventualmente in consultazione. Qualcosa da azzittire in vista del nuovo trono imperiale presieduto da un ricamato progetto di se.
Dottoressa! Mi ha detto recentemente una paziente. Io mi sento spesso in colpa! Mi dispiaccio!
E non è contenta? Ho risposto provocatoriamente.

Una cosa un po’ controintuitiva che si capisce studiando psicologia, è che ogni comportamento, ogni schema mentale ha una sua possibile funzione adattiva. E’ il suo esondare a creare patologia, non il suo esserci. Tante parole psicologiche che associamo al malessere sono funzionali a uno scopo. L’ansia ci protegge dai pericoli. La depressione ci fa elaborare le perdite, la scissione polarizzante ci fa affrontare i nemici e ci fa trovare la forza per combatterli, e così anche il senso di colpa e il suo tetro e antiquato emissario, il super -io possono essere nostri alleati. I problemi sorgono diagnosticamente parlando, quando avendo noi a disposizione tante strategie per organizzare i comportamenti tendiamo a utilizzarne sempre alcune a discapito di altre. A quel punto ci si confronta con delle ansie inappropriate, con un disturbo depressivo, con modalità frequentemente conflittuali e via discorrendo in un elenco di problemi che molto spesso intossica il prossimo oltre che se stessi. ( In effetti – è molto faticoso sopportare il fuoco di fila della sintomatologia altrui. )  

L’epoca della possibile realizzazione identitaria

Ora la nuova struttura delle nostre forme familiari e sociali ci mette nella condizione di dover riconfigurare il nostro antico triunvirato – nei ruoli della coscienza, del desiderio e del giudizio, senza però doverci rinunciare, in vista di una nuova gestione dei nostri progetti di vita. Il nostro fare meno figli, il nostro essere nati da famiglie nucleari per andare a fondare nuove famiglie nucleari – di varia foggia e grado – per un verso ci rende difficile l’emancipazione dai genitori, per un altro ci rende più facile l’essere genitori. Diventa difficile avere la pulsione per andarsene di casa perché le risorse materiali sono più abbondanti, del tempo in cui si doveva dividere il pane con cinque fratelli, mentre essere genitori con due bocche da sfamare, permette margini di manovra identitari che prima erano impensabili. Due figli crescono infatti, incredibilmente presto.

Troppo comodi come figli, e molto comodi come genitori, ci troviamo nel nuovo ruolo storico dell’intercettare i desideri e le nostra realizzazione di noi stessi, come soggetti. Abbiamo proprio un tempo psicologico per pensarci, per interrogarci per intercettarci, per mettere a fuoco ciò che siamo. Una funzione che  -almeno io trovo più interessante che maligna – dell’attività delle persone sui social, è che possono scriversi, rappresentarsi in un discorso su se stessi e sul proprio desiderio, e addirittura sulle proprie dinamiche relazionali, e se sono attente, possono arrivare a correggerle. Le persone si scoprono accentratrici leggendo le loro dinamiche, ma anche capiscono di contro quanto poco amano mettersi in gioco quelli che vorrebbero farlo e non lo fanno. Altri scoprono in se stessi pregi che non avevano e certi invece difetti sottili che si ritrovano rileggendo i loro scambi. Tutti oggi sappiamo molto di più di noi stessi. La facilità con cui oggi, più di un tempo si considera l’idea di andare in psicoterapia, rientra in questa nuova e interessante legittimità del desiderio, del progetto di se.
E davvero, non c’è niente di male. Davvero questo potrebbe essere semplicemente un progresso.
Ma siamo sicuri che il vecchio Super Io, sia nemico di questo progresso?

Patologie del superio  – quando il senso di colpa e la coartazione sono dominanti.


Siamo abituati, a configurare il Superio come l’erede della voce di qualcun altro, che non siamo troppo disposti ad accettare come nostra. 
Ora ci sono alcuni casi di persone dove il senso di ansia e di colpa, dominano le azioni continuamente, e dove evidentemente c’è stato un problema nell’educazione, nel modo di tirare su quel bambino o quella bambina. Questo tipo di problematiche nel novecento erano molto molto frequenti. La severità dei padri, e forse anche delle madri, l’onnipresente retorica del sacrificio che dava una specifica connotazione ai gesti affettivi – come qualcosa di costoso e facilmente retrattile – spesso creavano psicologie dell’insicurezza, della prestazione e della compiacenza. I padri e le madri incontentabili diventavano oggetti interni da compiacere a ogni piè sospinto, e la bocca storta del genitore insoddisfatto “hai preso 8, potevi prendere 9” da una parte un movente formidabile per raggiungere risultati, dall’altra la garanzia di un risentimento come moto permanente, di un difficile accesso al piacere, e di un senso di colpa costante nel non essere compiacenti a abbastanza. Senso di colpa che una volta strutturato verrà applicato e proiettato sulle situazioni più disparate e che inquinerà la genuinità delle relazioni e toglierà ogni margine di manovra alla creatività, la quale ha bisogno di un forte nucleo erotico per esprimersi, di contattare un’area estetica, ludica, del divertimento – come avrebbe poi spiegato Winnicott in Gioco e Realtà. Inoltre molto frequente è la sensazione della frustrazione, della non soddisfazione e quindi non di rado, si apre la via a patologie di altro tenore, che derivano da altre aree ancora più arcaiche della nevrosi, e che sono le patologie dell’invidia. Nell’impossibilità di accedere facilmente al piacere, la persona angariata dalla castrazione superegoica guarda con desiderio malmostoso e ambivalente persone dal cui soave edonismo e senso di pienezza sembrano ricche, per invidiarle gravemente.  Il materno interno non ha offerto abbastanza eros, per contrastare la falce del dovere e della frustrazione, e l’invidia kleiniana della pienezza altrui divine una minaccia permanente.

Quando ci si trova in queste situazioni, contattare uno psicoterapeuta può essere una buona idea. Genitori che combinano una modalità relazionale anaffettiva con  una modalità di continua insoddisfazione e una eccessiva disinvoltura nel somministrare le frustrazioni, rendono il contatto con loro accidentato, e le strutture psichiche che hanno a che fare con quel contatto, e che si formano con quel contatto nevrotizzate. Perché a quel punto l’opzione superegoica sembra l’unica adatta ad avere un po’ di riconoscimento esistenziale e tutto il resto ne è permeato surclassato e investito. Non solo si obbedisce quindi continuamente a delle regole, interne prima che esterne, ma le percezioni e le comunicazioni divengono distorte. Non si fanno più le cose generose per affetto ma per dovere, non ci si accorge di voler bene al prossimo ma si sta sempre ad obbedire a imperativi, piacere negli affetti è costantemente inquinato, piacere nel fare il proprio lavoro spesso altrettanto. Gli interlocutori per parte loro si sentono impercettibilmente svalutati, quando non sono fastidiosamente invidiati,  non di rado si sentono trasformati in oggetti di un obbligo non richiesto, e qualche volta diventano francamente irritati. Tanto più l’organizzazione nevroticamente superegoica prende terreno, tanto più le relazioni sono avvertite come gravemente contaminate. Bisognerà in un modo o in un altro ricostruire quegli oggetti interni che l’allagamento superegoico va soffocando, ricostruire un complesso materno caldo e funzionale che dia un po’ di gas erotico al campo esistenziale, per far scoprire al soggetto che dentro di se c’è davvero quella possibilità estetica che invidia agli altri – ma è un processo difficile da condurre da soli.

Psicopatologie del superio – quando il superio è carente.

Attualmente però quel tipo di famiglia, quel tipo di combinato disposto è molto scoraggiato culturalmente non è più un modello di riferimento, non ha vantaggi narcisistici in vista. Il padre padrone è molto sanzionato per un verso, e altrettanto succede alla madre dismissiva, per cui questo modo di relazionarsi alla prole è diventato più infrequente – anche se naturalmente sempre presente – e i rischi nuovi vengono dalla parte opposta, cioè dall’assenza di sanzione e con una nuova e inedita debolezza super egoica, che è altrettanto tossica, e anzi a volte mi sembra di pensare anche di più del contrario. Se non altro perché la debolezza super egoica genera un ordine di malessere esistenziale che la psicoterapia fa più fatica a lenire e risolvere, e che investe in modo radicale e doloroso molte aree esistenziali dalle fondamenta. L’eccesso di superio mette al mondo degli infelici che però in qualche modo hanno una certa tenuta prestazionale, per quanto distorta e inquinata eroticamente. Fanno fatica a fare le cose con piacere, ma possono dire a se stessi di farle. Si emancipano malamente dalle famiglie di origine, spesso covano molti rancori, rimproverando agli altri i vissuti di cui sono i primi responsabili, ma almeno come si dice volgarmente, fanno la loro vita.
Cosa succede al polo opposto?

Il patriarcato si annacqua nel bene e nel male, e con esso quanto di animus e di principio paterno,  di maschile e di volizione albergava nel cuore delle madri, e nelle nuove famiglie (Con nuove si intendano quelle formatesi già negli anni settanta e di li a scendere) con pochi figli o figli unici (si può vedere il post precedente) appare più frequentemente il principio della comprensione, la ricerca di un benessere anche per i piccoli, e molto meno la chiamata alla sanzione e al dovere. Il nuovo genitore fatica molto a sopportare il suo momento di antitesi hegeliana, essere quello che da torto e che permette così all’altro di identificarsi e di trovarsi, e spera continuamente che nella conciliazione e nella condivisione si arrivi a una convergenza di interessi con il figlio che lo aiuti a camminare. Anzi, si sacrifica anzi spesso, per permettere al figlio di fare quello che desidera. Ma questo genera uno strano effetto paradossale: la concretizzazione del desiderio, diventa un processo molto poco faticoso, e proprio in quanto poco faticoso molto più gravemente minacciato.

Anche questo è infatti un assassinio alla creatività e un attentato alle relazioni, solo molto più subdolo. La concentrazione sul piacere fa capire magari al soggetto cosa lo fa stare bene, ma il sapore della disciplina per arrivare a farlo bene, e a godere creativamente del suo talento lo terrorizza, lo impigrisce, e così il soggetto si distanzia dai suoi obbiettivi con una noia difensiva, e un narcisismo dei più inutili. Non impara a fare niente, e la facilità con cui accede alla pigrizia lo fa apparire come privo di talenti. Chiunque ami tantissimo qualcosa – fossanche un hobby, che sia suonare la chitarra elettrica, che sia giocare a calcio, che sia lavorare nelle biotecnologie, sa che la creatività ha bisogno della rigidità superegoica, ha bisogno della disciplina. La rigidità superegoica fa imparare metodi complessi, fa scalare piramidi di conoscenze, e soltanto a certe altezze si può creare. Se non arrivi a quelle altezze non riesci neanche a giocare con la creatività.  Di contro, l’opzione super egoica, e il senso di colpa che aleggia in ragione del suo tradimento, quando è una struttura flessibile che diviene proprietà del soggetto, e che il soggetto riconosce come propria, è in dispositivo atto a proteggere le sue relazioni la sua affettività, ma non in virtù di apparenze eteronormate, ma come necessità dell’affetto, come un dovere non verso apparenze sociali, non verso famiglie o vicinato e manco verso il destinatario delle proprie azioni, ma come atto di coerenza emotiva rispetto alla propria identità. Ed è una cosa santa, che aiuta la gestione di momenti difficili, che ne fa attutire la pesantezza. Si arriva ad avere voglia di fare una certa serie di azioni: di sopportare una moglie troppo troppo ansiosa e invadente, di fare la notte per i figli che stanno male, di stare vicino a un genitore anziano e disabile. Sono cose che si fanno per se, per la manutenzione degli affetti, e a quel punto il sentirsi in colpa diventa non più un tradimento di una norma che non si capisce bene da chi sia emanata, ma il campanello di un’organizzazione amministrativa che sa quando si sta lavorando ai danni della casa psichica anziché a suo vantaggio. 

Però anche qui, quando l’opzione superegoica è fragile, disconosciuta, non fa il suo dovere il suo ruolo di sostegno, l’importanza che ha l’ingaggio relazionale, il farsi carico per se che implica la manutenzione degli affetti, viene persa di vista, ci si accomoda in relazioni liquide a basso voltaggio, quando il gioco di fa duro si molla la presa, si rimane figli eterni, con partner che si allontano,  amici che si scocciano,  genitori che si vergognano di scoprirsi col tempo vecchi e delusi, e naturalmente pochi pochi nuovi bambini che odorano di responsabilità ingestibili. Questa opzione esistenziale io oggi la vedo molto molto pericolosa e mi preoccupa moltissimo, perché mette al mondo soggetti castrati e deerotizzati, per aiutare i quali in terapia bisogna inventarsi il modo di introdurre una funzione superegoica nel campo analitico, la quale se si pensa al campo analitico è una sorta di contraddizione in termini.  Va detto che se il terapeuta si sente invogliato a svolgere una funzione prescrittiva, pur nella sorveglianza dell’insidiosa identificazione con il genitore che non ha saputo porre delle regole, questo sta a significare che nel suo assistito c’è una sorta di nostaglia super egoica, una nostalgia di legge, che il soggetto non si sente di poter incarnare e che la subappalta al terapeuta, come spesso fanno gli adolescenti più soli e addolorati, chiedendo disperatamente dei confini. Accorgersi di questo movimento, di questo passaggio di desideri inconsci aiuta a intervenire in modo costruttivo. Se il paziente riconosce il potere di questa norma se riconosce ciò che va subappaltando, si possono inventare delle cose.