La verità è che il Sogno del Califfato non è mai morto – ha solo cambiato tattica.
L’Occidente continua a fingere che jihad significhi “lotta interiore”. Forse per il riformatore devoto. Ma per gli islamisti, la jihad è sempre stata una campagna su più fronti – combattuta con denaro, migrazione e, quando la maschera cade, con bombe.
Il concetto di Ummah – una comunità globale di credenti – suona spirituale, ma porta con sé una gravità politica. L’obiettivo ultimo, nell’ideologia islamista, è l’unità sotto un unico sovrano: il Califfo. Non è una metafora; è scritto in secoli di giurisprudenza che divide il mondo in Dar al-Islam (il regno dell’Islam) e Dar al-Harb (il regno della guerra). Uno è essere governati. L’altra – alla fine – da conquistare.
Se ne vedono gli echi ovunque: il revivalismo “neo-ottomano” di Erdoğan, i religiosi che definiscono l’Europa “matura per l’Islam”, i fondi del Golfo che finanziano moschee che predicano la separazione, non l’integrazione. Le ondate migratorie di giovani in età militare non sono una casualità demografica. Sono portatori di un’idea: che l’Islam deve espandersi, non adattarsi.
E così si ottengono società parallele, non melting pot. Distretti dove la Sharia prevale sulla legge dello Stato. Città dove l’“integrazione” è considerata un’intrusione coloniale. L’ideologia non si nasconde, cita apertamente le sue fonti. Gli appelli del Corano a combattere gli infedeli possono essere nati nel VII secolo, ma gli islamisti li recitano nel 2025, su Telegram, con i sottotitoli.
Questa non è una guerra tra eserciti, ma tra civiltà: tra coloro che credono che la fede debba governare tutto e coloro che credono che non debba governare nulla. L’errore dell’Occidente non è quello di essere troppo severo, ma quello di essere troppo educato per dire ciò che vede.
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