di Saverio D’Eredità
Sono sempre andato forte io, in Geografia. Ma solo la geografia delle mappe, degli ambienti, dei luoghi. Quella dei punti trigonometrici meno. Comunque mi son sempre sentito forte, in Geografia. Infatti ho sempre pensato che quando avrei avuto dei figli, sicuramente li avrei aiutati in Geografia. Anche Storia, in caso. Il resto meglio di no.
L’altra sera, tornato a casa più tardi del solito, ho trovato Francesca sul letto a ripetere. “Interrogazione a sorpresa di Geografia” mi ha detto rassegnata. Tema? “Le Montagne”.
Ah, bene, le ho detto, su questo vado forte! Aspettavo questo momento da anni: cosa dobbiamo ripassare? Tipologie di valli? Fasce altimetriche ed ecosistemi? Gruppi alpini? Fiumi e Mari? Avrei poi insistito molto sulla geografia locale. Che tutto inizia da lì. Anzi. Dalla geografia della tua città, del tuo quartiere. “Ma sai che quando andavo io a scuola, la prima lezione di geografia era disegnare la tua via?” No, questo non glielo ho detto. Ma più per rispetto nei miei confronti. Intendiamoci. Che a fare il solito genitore di quelli “che ai miei tempi” mi sarei sentito proprio fallito.
Sono piuttosto convinto del fatto che sia nel periodo scolastico – un periodo che in termini di intensità è senza dubbio quello che ci segna maggiormente nella vita – che si creano le condizioni per tutte quelle certezze, o più sovente incertezza, piccole ansie e trucchi di autoconservazione che segneranno bene o male la nostra esistenza. Ecco, ad esempio, l’interrogazione a sorpresa è sicuramente una di quelle cose che ti segnano psicologicamente. L’idea che ad un certo punto – ad un qualsiasi punto – ti venga chiesto qualcosa che non ti aspettavi minimamente. E a cui devi rispondere. Il come, determinerà il tuo modo di stare al mondo (così, per estremizzare). Quindi va da sé che capisco benissimo l’ansia dell’interrogazione sorpresa ed è il motivo per il quale, di qualunque cosa, cerco di farmi delle domande anche quando non serve. Così, per non farmi cogliere impreparato.
Ad esempio, mi sai dire tu che sai sempre tutto, quante sono le picche di Gleris? Sono sette per davvero o forse un po’di più o addirittura un poco meno? Perché è tutto da discutere che lo Spiciot non ne faccia parte, ad esempio, e al tempo stesso la Cima della Vacca sarà pure evidente da nord, ma da sud ci passi sopra che manco ti accorgi. Secondo me è più giusto dire cinque, se le guardi dalla radura di Vualt, anche se il Chiavals non è che sia proprio Gleris, diciamolo. Sarebbe da fargli un test genetico, al Chiavals per vedere di chi è figlio o di chi è padre. Di sicuro il Zuc, come sempre, si fa gli affari suoi.
Voi vi chiederete se sono problemi questi – perché “in fondo, Sav, chi se le incula” direbbe uno dei miei compari a caso, sedotto dalla mia proposta esplorativa e trascinato con un consenso poco informato tra quelle cime marginali – però vi vorrei fare riflettere sul valore che diamo alle cose (giusto per metterla giù facile). Le Picche di Gleris, che a me piace chiamarle “Crete” e basta, hanno solo avuto la sfiga che non ci è (ancora) arrivato nessun designer a stilizzare il profilo che incornicia la valle di Studena, ma vedrete se tra un po’non ci troviamo con il logo “7picche” su qualche maglietta. Che anche le tradizioni popolari ci provano a far marketing coi toponimi, numerandone sette quando sono forse otto o nove. Tutto da vedere se la Creta di Rusei la mattiamo dentro, poi.
In ogni caso, il quesito mi ha tenuto impegnato per un po’di tempo quest’autunno. Non fosse altro che per avere qualcos’altro cui pensare che questo mi sa che è, alla fine, il vero motivo di alzarsi all’alba. Non pensare. Però io, nel Gleris, e in generale in questa specie di enclave immersa in un cono d’ombra geografico, ci ho sempre trovato qualcosa di interessante proprio in virtù del suo mistero discreto. Di questa orografia non lineare. Di queste valli che non portano a niente se non a sé stesse. Di queste cime che sovrintendono senza dominare. Non hanno un vero centro, queste montagne. A loro modo, sono una forma di organizzazione democratica e solidale. Una società egualitaria.
Rimane pur sempre il problema del numero delle picche, della loro corretta denominazione, delle quote (che qua ogni tanto prendono a riferimento diversi livelli del mare), del collocamento sulla linea di cresta. Cose per le quali un giorno magari entri al bar, ti prendi un caffè, e uno ti chiede: quali sono le picche di Gleris? E tu sei lì che non sai rispondere, abbassi lo sguardo sulla tazzina, nicchi, ne nomini un po’a caso e te ne manca sempre una. Come i re di Roma e i nani di Biancaneve. E voi capite no, l’imbarazzo. Ecco perché ogni tanto bisogna farsi delle domande, rimettere in discussione certezze, in altre parole ripensare tutto come fosse la prima volta. Che a me, sta cosa di fare finta di essere un geografo del settecento o un esploratore, è sempre piaciuta da morire (rimane sempre l’idea che da grande farò una di queste cose) ed è credo uno dei pochi buoni lasciti degli anni ’80 e della visione ripetuta di Indiana Jones. E quindi qualche volta, semplicemente, faccio finta.
Faccio finta di essere quel geografo, di muovermi con la mappa in mano, ridisegnare crinali e bacini idrografici. Stupirmi di non sapere qualcosa. Ad esempio che il giro delle creste lo puoi fare in un senso come in un altro, che la forcella del Muini ha un canale tutto suo e la cima di mezzo in realtà sono due (e vedi quindi che avevo ragione io). Scoprirsi fulminati dalla vista del Cozzarel, che pare distante come una cima in una valle del Tagikistan (e in effetti, comunque, è distante da tutto). Allontanarsi lungo orbite eccentriche, tra il Crostis e il Montusel. Scoprire i ruderi di una casera, sommersi sotto le foglie. Alla fine, per queste picche ci ho più girato attorno, che altro. Quasi che a compiere la traversata, quella vera, si facesse peccato. Che non ci fosse nulla su cui arrovellarsi mentre qualcuno proietta delle slide durante una riunione.

Insomma, stavo quasi per aggiungere questa domanda, a Francesca. E spiegarle che sono sette se le vedi da Nord, e pure belle e affilate come denti di squalo ma se le vedi da Vualt sono forse meno di cinque, che il Chiavals non so dirti se ne fa parte o no. E le avrei ricordato che, in ogni caso, bisogna sempre mantenersi critici e farsi delle domande. Non dare per scontato quello che dicono e, in ogni caso, nel dubbio andare a vedere. Sta cosa delle fasce climatiche, oggi ad esempio, è tutta da discutere. E certi larici li trovi anche sotto i 1800 metri, anzi, qualche volta spuntano in mezzo alle faggete. Come in val Alba, ad esempio.

Ma tutto questo non gli ho detto veramente. Ho lasciato che ripetesse con la mamma, per stare tranquilli. Ma la capivo. Anche io mi sentivo così, in questi giorni, con il dubbio che le picche fossero davvero sette e l’ansia di una interrogazione a sorpresa. Sarà pure stato un trauma, quello delle interrogazioni, dell’essere impreparato o di fare brutta figura (magari col prof che “credeva in te”) ma forse è stato anche un bene. Che se non ci fosse stata, quell’ansia, non avrei sviluppato quella certa curiosità che mi è poi rimasta, quel darsi il beneficio del dubbio e la magnifica illusione che ognuno di noi possa essere – ogni giorno e in ogni tempo – geografo ed esploratore di un mondo nuovo. Basterebbe sottrarsi alle sintesi pre-compilate e ai box di approfondimento del libro di geografia. Fare, ogni tanto e con moderazione, qualche stronzata tipo prendere una traccia che si addentra nel bosco. Muoversi come se fossimo dentro la cartina muta.
Capita nei giorni d’autunno, che l’aria pare pulita con il brillantante e senti che l’unica cosa di cui hai bisogno è di una cresta, una prospettiva, qualche roccetta e una tazza di tè, che mi torni la voglia di venire qua. Girare la curva dopo Masereit, e entrare per un po’in quell’altro mondo facendo finta di non sapere niente. E, ogni volta, rendermi conto che davvero non so niente.
Le Picche di Gleris, ogni tanto, sono la mia cartina muta.




















