Cartina muta

di Saverio D’Eredità

Sono sempre andato forte io, in Geografia. Ma solo la geografia delle mappe, degli ambienti, dei luoghi. Quella dei punti trigonometrici meno. Comunque mi son sempre sentito forte, in Geografia. Infatti ho sempre pensato che quando avrei avuto dei figli, sicuramente li avrei aiutati in Geografia. Anche Storia, in caso. Il resto meglio di no.

L’altra sera, tornato a casa più tardi del solito, ho trovato Francesca sul letto a ripetere. “Interrogazione a sorpresa di Geografia” mi ha detto rassegnata. Tema? “Le Montagne”.

Ah, bene, le ho detto, su questo vado forte! Aspettavo questo momento da anni: cosa dobbiamo ripassare? Tipologie di valli? Fasce altimetriche ed ecosistemi? Gruppi alpini? Fiumi e Mari? Avrei poi insistito molto sulla geografia locale. Che tutto inizia da lì. Anzi. Dalla geografia della tua città, del tuo quartiere. “Ma sai che quando andavo io a scuola, la prima lezione di geografia era disegnare la tua via?” No, questo non glielo ho detto. Ma più per rispetto nei miei confronti. Intendiamoci. Che a fare il solito genitore di quelli “che ai miei tempi” mi sarei sentito proprio fallito.

Sono piuttosto convinto del fatto che sia nel periodo scolastico – un periodo che in termini di intensità è senza dubbio quello che ci segna maggiormente nella vita – che si creano le condizioni per tutte quelle certezze, o più sovente incertezza, piccole ansie e trucchi di autoconservazione che segneranno bene o male la nostra esistenza. Ecco, ad esempio, l’interrogazione a sorpresa è sicuramente una di quelle cose che ti segnano psicologicamente. L’idea che ad un certo punto – ad un qualsiasi punto – ti venga chiesto qualcosa che non ti aspettavi minimamente. E a cui devi rispondere. Il come, determinerà il tuo modo di stare al mondo (così, per estremizzare). Quindi va da sé che capisco benissimo l’ansia dell’interrogazione sorpresa ed è il motivo per il quale, di qualunque cosa, cerco di farmi delle domande anche quando non serve. Così, per non farmi cogliere impreparato.

Ad esempio, mi sai dire tu che sai sempre tutto, quante sono le picche di Gleris? Sono sette per davvero o forse un po’di più o addirittura un poco meno? Perché è tutto da discutere che lo Spiciot non ne faccia parte, ad esempio, e al tempo stesso la Cima della Vacca sarà pure evidente da nord, ma da sud ci passi sopra che manco ti accorgi. Secondo me è più giusto dire cinque, se le guardi dalla radura di Vualt, anche se il Chiavals non è che sia proprio Gleris, diciamolo. Sarebbe da fargli un test genetico, al Chiavals per vedere di chi è figlio o di chi è padre. Di sicuro il Zuc, come sempre, si fa gli affari suoi.

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Voi vi chiederete se sono problemi questi – perché “in fondo, Sav, chi se le incula” direbbe uno dei miei compari a caso, sedotto dalla mia proposta esplorativa e trascinato con un consenso poco informato tra quelle cime marginali – però vi vorrei fare riflettere sul valore che diamo alle cose (giusto per metterla giù facile). Le Picche di Gleris, che a me piace chiamarle “Crete” e basta, hanno solo avuto la sfiga che non ci è (ancora) arrivato nessun designer a stilizzare il profilo che incornicia la valle di Studena, ma vedrete se tra un po’non ci troviamo con il logo “7picche” su qualche maglietta. Che anche le tradizioni popolari ci provano a far marketing coi toponimi, numerandone sette quando sono forse otto o nove. Tutto da vedere se la Creta di Rusei la mattiamo dentro, poi.

In ogni caso, il quesito mi ha tenuto impegnato per un po’di tempo quest’autunno. Non fosse altro che per avere qualcos’altro cui pensare che questo mi sa che è, alla fine, il vero motivo di alzarsi all’alba. Non pensare. Però io, nel Gleris, e in generale in questa specie di enclave immersa in un cono d’ombra geografico, ci ho sempre trovato qualcosa di interessante proprio in virtù del suo mistero discreto. Di questa orografia non lineare. Di queste valli che non portano a niente se non a sé stesse. Di queste cime che sovrintendono senza dominare. Non hanno un vero centro, queste montagne. A loro modo, sono una forma di organizzazione democratica e solidale. Una società egualitaria.

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Circo di gleris, d’inverno – foto S.D’Eredità

Rimane pur sempre il problema del numero delle picche, della loro corretta denominazione, delle quote (che qua ogni tanto prendono a riferimento diversi livelli del mare), del collocamento sulla linea di cresta. Cose per le quali un giorno magari entri al bar, ti prendi un caffè, e uno ti chiede: quali sono le picche di Gleris? E tu sei lì che non sai rispondere, abbassi lo sguardo sulla tazzina, nicchi, ne nomini un po’a caso e te ne manca sempre una. Come i re di Roma e i nani di Biancaneve. E voi capite no, l’imbarazzo. Ecco perché ogni tanto bisogna farsi delle domande, rimettere in discussione certezze, in altre parole ripensare tutto come fosse la prima volta. Che a me, sta cosa di fare finta di essere un geografo del settecento o un esploratore, è sempre piaciuta da morire (rimane sempre l’idea che da grande farò una di queste cose) ed è credo uno dei pochi buoni lasciti degli anni ’80 e della visione ripetuta di Indiana Jones. E quindi qualche volta, semplicemente, faccio finta.

Faccio finta di essere quel geografo, di muovermi con la mappa in mano, ridisegnare crinali e bacini idrografici. Stupirmi di non sapere qualcosa. Ad esempio che il giro delle creste lo puoi fare in un senso come in un altro, che la forcella del Muini ha un canale tutto suo e la cima di mezzo in realtà sono due (e vedi quindi che avevo ragione io). Scoprirsi fulminati dalla vista del Cozzarel, che pare distante come una cima in una valle del Tagikistan (e in effetti, comunque, è distante da tutto). Allontanarsi lungo orbite eccentriche, tra il Crostis e il Montusel. Scoprire i ruderi di una casera, sommersi sotto le foglie. Alla fine, per queste picche ci ho più girato attorno, che altro. Quasi che a compiere la traversata, quella vera, si facesse peccato. Che non ci fosse nulla su cui arrovellarsi mentre qualcuno proietta delle slide durante una riunione.

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Insomma, stavo quasi per aggiungere questa domanda, a Francesca. E spiegarle che sono sette se le vedi da Nord, e pure belle e affilate come denti di squalo ma se le vedi da Vualt sono forse meno di cinque, che il Chiavals non so dirti se ne fa parte o no. E le avrei ricordato che, in ogni caso, bisogna sempre mantenersi critici e farsi delle domande. Non dare per scontato quello che dicono e, in ogni caso, nel dubbio andare a vedere. Sta cosa delle fasce climatiche, oggi ad esempio, è tutta da discutere. E certi larici li trovi anche sotto i 1800 metri, anzi, qualche volta spuntano in mezzo alle faggete. Come in val Alba, ad esempio.

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Ma tutto questo non gli ho detto veramente. Ho lasciato che ripetesse con la mamma, per stare tranquilli. Ma la capivo. Anche io mi sentivo così, in questi giorni, con il dubbio che le picche fossero davvero sette e l’ansia di una interrogazione a sorpresa. Sarà pure stato un trauma, quello delle interrogazioni, dell’essere impreparato o di fare brutta figura (magari col prof che “credeva in te”) ma forse è stato anche un bene. Che se non ci fosse stata, quell’ansia, non avrei sviluppato quella certa curiosità che mi è poi rimasta, quel darsi il beneficio del dubbio e la magnifica illusione che ognuno di noi possa essere – ogni giorno e in ogni tempo – geografo ed esploratore di un mondo nuovo. Basterebbe sottrarsi alle sintesi pre-compilate e ai box di approfondimento del libro di geografia. Fare, ogni tanto e con moderazione, qualche stronzata tipo prendere una traccia che si addentra nel bosco. Muoversi come se fossimo dentro la cartina muta.

Capita nei giorni d’autunno, che l’aria pare pulita con il brillantante e senti che l’unica cosa di cui hai bisogno è di una cresta, una prospettiva, qualche roccetta e una tazza di tè, che mi torni la voglia di venire qua. Girare la curva dopo Masereit, e entrare per un po’in quell’altro mondo facendo finta di non sapere niente. E, ogni volta, rendermi conto che davvero non so niente.

Le Picche di Gleris, ogni tanto, sono la mia cartina muta.

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La scatola vuota

di Saverio D’Eredità

Non so quando è successo, ad un certo punto, che l’alpinismo delle vie normali – in particolare a quelle cime un po’nascoste e poco famose – sia diventata una roba elitaria. Quello delle “normali” è stato per molti ma forse non per tutti, la prima forma di alpinismo praticato. Perché si parte (quasi) sempre dalla cosa più facile o meglio naturale. Come imparare le tabelline, guidare l’auto nei parcheggi dello stadio e far le curve a spazzaneve. Poi che non lo si faccia tutti, questo percorso, è un’altra questione. Quello delle normali me lo sono sempre figurato come una forma di alpinismo umile, ma non per questo mediocre. Un’espressione del ceto medio, diciamo, tutta una vita casa e lavoro, che tiene un basso profilo per non montarsi la testa, ma lasciandosi sempre (molto) spazio per crescere e sognare cose più difficili. Di solito, si inizia così.

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Di birre, soste e cime senza nome

di Saverio D’Eredità

Senza dubbio un fattore importante nel determinare la bellezza, soddisfazione o qualità di una qualunque uscita in montagna è dato dalla sosta di ritorno (che mi chiamano terzo tempo, per fare i simpatici, ma la faccenda è invece serissima). La cui importanza è data, soprattutto, da come si consuma la sosta. Rapida – del tipo un sorso e via, giusto per dire che ci siamo fermati – lunga e ricca (birra, panino e caffè: anche troppo. Di solito associata a gite di bassa intensità). Oppure la sosta dei giusti: una birra (grande), le gambe allungate sotto la panca, lo sguardo alla parete là fuori. E la sensazione, inconfondibile, di aver onorato la giornata

Al Rifugio Grauzaria, ad esempio, se ordini una birra ti portano una bottiglia di Hirter. Che è una cosa strana, il fatto che in tre gestioni negli ultimi dieci anni la birra sia rimasta sempre la stessa – o magari è solo capitato a me. Quindi di fatto associo ogni uscita in Grauzaria sempre con questa Hirter da mezzo in bottiglia a condire la giornata. Giornata che, di solito, non è mai banale: né nella meta né nell’esito. Il che rende i giri in Grauzaria sempre interessanti. La Hirter, pur non molto alcolica (un onesto 5%), se assunta in quel determinato frangente che potremmo chiamare “finestra alcolica” finisce per entrare in circolo velocemente e dare una certa impronta alla discesa successiva e alla giornata appena conclusa (rischiando spesso di chiuderla male – o bene, a seconda dei punti di vista). Ricordo quindi distintamente le credo almeno due (che con Andrea due sono la base di partenza) birre dopo la Bizzarro-Simonetti (Rimmel) che di tutte le vie della Sfinge è quella che mi ha stregato di più e soprattutto impegnato nella discesa (dal rifugio, intendo: non vuoi fare una garetta scema tipo di arrivare al parcheggio entro mezz’ora?). E ancora una crepuscolare sosta dopo la quasi integrale alla Sfinge col Mose, persi a chiacchierare all’infinito (cosa che caratterizza il Mose) e finita tardino perché tardino ci eravamo anche presentati all’attacco – tanto in Grauzaria “stiamo un attimo ad arrivare” e invece.

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L’ultima corsa della funivia

di Saverio D’Eredità

L’ultima corsa della funivia che da Punta Rocca, sulla Marmolada, scende alla stazione di fondovalle di Malga Ciapela parte alle 16.30. Per chi sale le vie della parete Sud che sbucano sulla stessa Punta Rocca – o sulla vicina cima della Marmolada d’Ombretta – ritrovarsi in cabina e scendere in dieci minuti è una possibilità decisamente appetibile. Non essenziale, intendiamoci.

A differenza di altre funivie “importanti” per l’attività alpinistica – come quella dell’Aiguille du Midi – perderla non è un dramma. Se sul Bianco finisci a bivaccare nei cessi della stazione, qui basta armarsi di pazienza e scendere a piedi, lungo la pista da sci e i resti decomposti del ghiacciaio, fino al Passo Fedaia. Una cosa che si risolve in un paio d’ore, diciamo. Niente di tragico, quindi, se non fosse per il paesaggio desolante che si ritrova ad attraversare, magari proprio nella romantica ora dell’Enrosadira per non dire al buio proprio: i rimasugli del ghiacciaio – ormai ridotto a una patina solcata da torrentelli e disseminata di rifiuti archeologici – sono la testimonianza di una civiltà in auto-estinzione. Una sorta di catarsi: da un lato la funivia, simbolo del progresso e del modello di sviluppo onnivoro; dall’altro, il cadavere del ghiacciaio, ucciso da quello stesso modello.

In ogni caso, sono riflessioni che – ammettiamolo – spesso agli alpinisti interessano poco. I pensieri sono molto più semplici e binari: funivia sì / funivia no. Se la prendi, sei stato bravo e veloce. Se no, sei stato lento, e ti tocca la penitenza. Questa storia di prendere la funivia, però, è un po’ una chimera. Sono davvero pochi quelli che mi dicono di avercela fatta e, secondo me, funziona più da incentivo: ti spinge ad attaccare presto, scalare veloce, portarti a casa la via e scendere senza ulteriori problemi.

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Focale

di Saverio D’Eredità

Ho fatto una foto al mio amico Nicola. Ripreso di spalle, in piedi su una cengia all’attacco, osserva davanti a sé la parete aperta a ventaglio tra due ali di roccia. Ma, da qui, non posso sapere che espressione abbia.

Di attenzione forse – ai dettagli della parete, ai suoi punti deboli: le scanalature dei colatoi, le macchie chiare che tradiscono recenti frane, le ombre degli strapiombi. “Passiamo di qua, poi di là, e infine a quella cengia.” Di sicuro non lì, dove gli aloni chiari indicano placche compatte.

Forse di preoccupazione – non sarà stato un errore non portare almeno un cordino?

O, semplicemente, di contemplazione.

“In contemplazione del mistero”, sussurro. Come se volessi scrivere subito una didascalia alla foto. Chi lo diceva? Realizzo che è stato proprio Nicola, anni fa, a mandarmi un suo scritto con quel titolo. Parlava della Nord del Piccolo Mangart, della linea immaginaria tracciata da Ernesto Lomasti e di quella magnifica ossessione che prende in ostaggio gli alpinisti. Quando, in una parete, vedono qualcosa che va oltre la sua realtà fisica – ovvero una semplice porzione verticale di crosta terrestre.
Una volta osavamo chiamarli sogni. Alcuni li abbiamo anche vissuti. In ogni caso, potrebbe essere un buon titolo anche stavolta. Perché è questo che stiamo facendo: contemplare.

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Da tempo non faccio più foto in montagna. O ne faccio pochissime, giusto per mostrare a casa “com’era su”. Alcune magari finiscono online, esposte per ventiquattr’ore e poi dimenticate. Dimenticate dalla piattaforma – che non porta memoria – da amici o sconosciuti che le avranno sfiorate col pollice sullo schermo per un paio di secondi. E persino da me.

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Il Samurai della Veunza

di Saverio D’Eredità

Prologo: una domenica pomeriggio di luglio 2015. Anticiclone africano, meteo stabile, caldo. Voci di bambini al mare. Sabbia nei sandali. Voglia di montagna. Numero in rubrica: Conta.

“Eilà, Conta, come siamo?”

“Mah, tutto bene, mi sto riprendendo”

(nb: 3 mesi prima della telefonata il Conta si era schiantato con il parapendio ed aveva frantumato non ricordo che vertebra, comunque una di quelle cose che in teoria rimani paralizzato – tipo)

“Ah, bravo. Sei andato in falesia?”

“Bè, si ho fatto anche un 6a a Travesio”

(nb: i 6a a Travesio sono durissimi. Più duri di un 6c in un posto qualsiasi e se uno fa un 6a a Travesio non teme nulla; dalla vita intendo)

“Super! Bè allora se giovedi ti puoi prendere una giornata vieni a fare una vietta?”

“Si dai…magari non tanto lunga…quanti tiri?”

“Bah, niente di che…un 10-12 forse 14 se li fai corti”

(nb: sapevo perfettamente che erano 18)

“Ah – dubbio – ok…difficoltà?”

“Bah..diciamo “sul” Sesto”

(nb: VI/A2 ufficialmente. Quindi 7° in realtà)

“Comunque c’è anche Carlo”

“Ah – sospiro – Ok, quindi magari io se vengo non faccio tanti tiri da primo”

“Vai sereno!”

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Il Conta al 5° tiro della Piussi alla Veunza
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L’errore

di Saverio D’Eredità

In principio, c’è sempre un errore. Quante scoperte, nella scienza o nella geografia, sono state fatte per errore? Fleming e la penicillina. Colombo e l’America, anche se non ce la racconta giusta. O chissà che la vita stessa, non sia frutto di un errore, di un processo difettato che si è trasformato in qualcos’altro?

Tutta questa storia, in fin dei conti, è partita per errore. Quella volta si andava in giro un po’per sentito dire, un po’con la “Busca” che era già vecchia vent’anni fa – che è sempre stata vecchia, in realtà, ma di quel vecchio immortale – e quindi non so perché ci si faceva un affidamento limitato. Forse solo per il fatto che apparteneva alla memoria dei “vecchi” alpinisti e noi ci sentivamo nuovi. Fosse altro che per il vestiario o per le ferraglie colorate appese agli imbraghi. Qualcuno aveva appena comprato la prima digitale compatta.

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Kugy Horn, 2007

Quella volta della Kugy-Horn, in particolare, oltre che alla Busca (che mi portavo io, in zaino, di nascosto quasi fosse un ex-voto), si aveva una relazione dattiloscritta di dubbia provenienza, che veniva spacciata per i corridoi della cigolante sede CAI di via Beato Odorico. Era come la testimonianza di un superstite del passaggio a nord-ovest. La conferma che quella via dimenticata esistesse davvero. Non ricordo se la relazione fosse precisa, probabilmente in gran parte sì – alle cenge di Walhalla ci siamo arrivati, e anche al colatoio di Horn.

Ma ciò che ricordo davvero è l’errore.

Forse nostro, forse suo. Una frase in particolare:

“Salire ortogonalmente al canale.”

Se avessi avuto l’AI, quella volta, le avrei chiesto una spiegazione e mi avrebbe ricordato che “in geometria “ortogonale” vuol dire “a 90 gradi” e che “due enti geometrici (come rette, piani, segmenti) sono ortogonali se formano un angolo di 90 gradi tra loro. Il termine può anche essere usato in contesti più ampi, dove indica una relazione di indipendenza o non interferenza tra elementi. Due rette perpendicolari, insomma. Quindi ora, voi prendete il canale in cui ci trovavamo (bello liscio come una grondaia, pieno di pozze d’acqua grandi come vasche da bagno, ma dritto, assolutamente logico) e iniziate a salire “ortogonalmente”.

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Il mio problema era (è, tuttora) che essendo maledettamente capra in matematica e geometria, non osai mettere in discussione il termine “ortogonale”. Come a scuola: annuivo, seguivo.
Sono sempre andato in giro con gente dalla formazione tecnica o artigianale. L’unico umanista, io. Il che mi relegava immancabilmente in una posizione subalterna, almeno nelle questioni “tecniche”. Che fosse seguire la relazione o allestire soste, Che leggere una relazione sia solo una questione tecnica, poi, è tutto da discutere. Battere chiodi, forse. In ogni caso, quella volta non solo non ebbi voce in capitolo, ma sul farmi andare avanti c’era pure perplessità. I chiodi, sì, li battevo – ma nessuno si fidava troppo.

Fatto sta che quella giornata, sulla Kugy-Horn, fu così lunga da sembrarne due.
E per anni quel ricordo è rimasto vivido, presente, come se ci abitassi. Ricordo ancora bene i passaggi, e la soluzione all’errore. Che fu anche una piccola rivincita dell’umanista senza competenze tecniche. Perchè ad un certo punto (prima del naufragio, del “torniamo giù”, della conta dei chiodi per la ritirata) dissi “io proverei di là”. Al di là di un traverso errato piantai un chiodo a U (che ora mi sa che non li fanno più) feci un passaggio in giù e mi trovai nel colatoio. Da quel momento mi fecero andare avanti e saltammo fuori da quel labirinto di sassi, acqua e interrogativi.

Ma la storia della direttrice ortogonale, dell’errore e della soluzione mi aveva talmente preso che, tornato a casa, senza alcun motivo, scrissi una relazione. Forse per rivalsa, vanto o forse perché volevo raccontare la montagna in un modo tutto mio. Che rendesse la montagna tutta, che una via non è una linea su un foglio bianco, ma un insieme di sensazioni, paure, esaltazioni filtrate e compresse in parole che possano essere comprese da tutti allo stesso modo e vissute diversamente da ciascuno. Una relazione, dietro le indicazioni tecniche, i gradi, le soste e tutto quanto è solo un racconto un po’diverso della montagna.

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Sono tornato 18 anni dopo, per vedere se questa specie di maggiore età avrebbe significato qualcosa, se i sassi che ricordavo così bene erano ancora lì così come l’errore. Che a vederlo oggi, mi fa quasi sorridere. Così come i chiodi, che in Giulie vanno sempre alla grande e bisogna aver proprio occhio per piantarli.

Sono tornato, 18 anni dopo, senza un motivo concreto – ammesso che ci debba essere per forza, non so – senza una relazione da scrivere né da controllare ma per mantenere una promessa a un amico e restituirgli un po’della fiducia che mi ha dato in questi anni. Perché credo che, ad un certo punto, arrivi il momento del dare. Per prendere abbiamo avuto tempo. Non so se l’abbiamo usato al meglio.

Ma una cosa ho capito, dopo 18 anni. Ed è che sono rimasto ancora qui. A queste rocce sbrecciate che quando sono pulite dall’acqua e dal vento diventano tanto belle da commuoverti. A queste luci traverse, a questi coni d’ombra. A questo spazio di ignoto che ancora oggi, se ti sforzi un momento, lo puoi vedere. È proprio là, dove non avevi guardato quella volta. A margine dell’errore dove tutto ha avuto inizio.

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Questa non è la Marmolada (sull’inutilità dei paragoni e l’utilità dei piani B)

di Saverio D’Eredità

Diffidate sempre dai paragoni. E dalle imitazioni. Che qualche volta possono essere pure meglio, eh. Ma anche peggio. E comunque diverse dall’originale.

Quante volte vi sarà stato paragonato un luogo ad un altro? Magari usando un archetipo come “La Venezia del Nord”, la “Parigi dell’Est”, o per rimanere a noi “il Cervino del…(completate pure: ogni gruppo montuoso al mondo ha almeno una cima piramidale tipo-il-Cervino). Ecco, pensate al fatto che anche la Carnia non è esente da paragoni e ha la sua “Marmolada di Carnia”, ossia la Cima della Miniera. Vi svelo subito che in realtà con la Marmolada vera non ha nulla a che fare: ma a noi piace dire così. Ci fa sentire – non so – più importanti? Più furbi?

Direte: ma tu che ne sai della Marmolada che manco ci sei stato (vero, ammetto la mia mancanza), ma rispondo anche: perché una cima o una parete deve essere per forza paragonata a un’altra? E se non ci bastasse dire che – ad esempio – la cima della Miniera è semplicemente la Cima della Miniera?

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Uno sporco lavoro (di mughi, sudore e salite dimenticate nel circo sud di Riobianco)

di Saverio D’Eredità

Ora non lamentarti. Non saranno certo quattro mughi a cambiare la giornata. Anche se non sono proprio quattro. Diciamo pure quattrocento. O quattromila. Una foresta, quasi. Una montagna intera di mughi, come quegli scogli pelosi che vedi sott’acqua. Non ti sono mai piaciuti. E oggi invece che fai? Ci stai nuotando sopra. Per andare dove? In linea generale lo sai. Nello specifico non è detto che tu riesca ad arrivarci. Meno male che c’è Raffaello davanti. Raffaello è una macchina. Non ha paura di niente. Soprattutto, non si lamenterebbe mai. Raffaello è un alpinista, mica come te. E dire che l’hai scelta tu, questa via.

“E’ uno sporco lavoro, ma qualcuno lo dovrà pur fare”. Lo diceva un pornodivo, me lo dice spesso Emiliano. Certo, mettere sullo stesso piano il compilatore di guida e il pornodivo è un po’azzardato. Magari ci sono delle similitudini. Ma adesso non riesco a pensarci. I piedi annaspano tra i rami. Le spore dei mughi annebbiano la vista. Che grado ha, la scalata su mugo?

Potrebbe andarti peggio. Potrebbe piovere. O fare caldo, tanto caldo da soffocare, da odiare ogni granello di queste montagne. Invece questa giornata cristallina, la brezza leggera, la distesa del Canin che ti ricorda l’inverno (e un mondo migliore) ti consola. In qualche maniera è tutto logico. Torni sempre naturalmente a questi luoghi.

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Il circo sud del Riobianco è davvero un angolo separato da tutto. Una sorta di enclave, difesa ovunque da dorsali rognose, canaloni che spazzano via anche il più solido degli ometti, la più profonda delle orme. Non rimane niente qua. Tutto si rigenera. La montagna si ribella. Eppure per anni, pur avendolo idealizzato non ero mai riuscito a metterci piede. Questo “envers”, come direbbero ad occidente, rimane tanto invisibile da sparire persino dalle liste e dalle ambizioni. Ah, le liste, sempre piene di idee di altri, di cose che si “devono” fare.

Tabelle, programmi, allenamenti. E’diventato proprio un maledetto sport, questo sport. Anche se non è uno sport. Avrai mai il coraggio di dire che oggi hai scalato una montagna per 7 ore e che la maggior parte del tempo sei stato in equilibrio su un ramo di mughi, fiutato la terra come un segugio e pure abbandonato un chiodo?

Anche se poi la roccia, a parte qualche metro, era bella. Così bella che quasi pare uno scherzo. In Giulie la roccia bella te la devi sempre guadagnare. Ma nessuno ti crederà. Che in quei pochi metri ritrovi il senso. Nel battere chiodi, nel salire piano con le mani che paiono chiedere permesso a rocce che se va bene hanno visto solo altri due umani prima di te.

Cosa racconterai quindi domani? Tentare di fare il supponente con la storia che il vero alpinismo si fa soffrendo tra i mughi senza gloria, diciamocelo, non attacca. Forse dirai che avevi un debito da saldare. Un debito di riconoscenza, per questi luoghi che tante volte ti hanno accolto pazientemente, te e i tuoi scatti di rabbia, te e la tua solitudine ostinata.

Quante volte queste pietre hanno atteso le ore ed ore passate a superare pochi tiri di una parete minore? (già come abbiamo fatto quella volta con Fabio a scendere a sera dallo spigolo?)

“Ma scusa, quante volte hai fatto la Direttissima? E quante la nord per l’originale?”

Già, quante volte. Mi stupisco, adesso, di quante volte. Una volta non le contavo. Una volta esistevano solo queste piccole pareti, chiuse a pugno in un vallone che pare un mondo a sé. Il mondo era tutto qua, in questa roccia che ti dava fiducia senza essere scontata. Il mondo era in fondo ai piedi bolliti, ristorati dal rigagnolo del rio in fondo al vallone. Il mondo bastava. Quindi oggi non ti lamentare. E se anche le mani saranno più sporche di resina che di magnesio, e le unghie nere di terra, il debito almeno in parte sarà saldato. Perché qualche volta, in tutto ciò che voracemente prendiamo e pretendiamo, qualcosa bisogna restituire.

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Nascita di una cooperativa

di Saverio D’Eredità

Come nascono le vie? Me lo son sempre chiesto e mi ha sempre incuriosito il processo che porta a “trovare” una linea in una parete. Per molto tempo, condizionato dal mio immaginario da alpinismo romantico, ho sempre pensato ad una sorta di “rivelazione”: l’alpinista osserva, intuisce, infine realizza. Ma in realtà, in molti casi, una via nasce per caso. Talvolta per errore, talvolta perché hai semplicemente gli occhiali giusti nella giornata sbagliata.

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Il vallone di Creta Forata è un luogo idilliaco, specie dopo le due orette abbondanti di cammino che ti fai risalendo la pista del Siera prima e traversando all’ombra di Cima Dieci poi. Sospesa in questo catino che pare un’arcadia lontana, la valletta chiusa tra il Creton di Tul, la cresta del Pettine e la Creta Forata invita a sostare sdraiati sui prati. E forse Emiliano quel giorno si sarebbe pure fermato lì, se non fosse stata per la mia determinazione. Sia mai che si torni a casa a mani vuote! Capisco che l’idea di dover ancora arrivare all’attacco, di dover traversare il ripido nevaio che occupava ancora gran parte della cengia basale della Creta Forata e che la via scelta fosse un gran punto interrogativo potesse minare la sua non altissima motivazione.

“Potremmo pascolare su per quelle rocce a destra” mi dice guardando una specie di scarpata frammista di rocce erba appena sotto il cengione della normale. “Piuttosto che attraversare il nevaio che pare la nord dell’Eiger, vado ad aprire una via su per di là”, mi dice con l’aria di chi già sta meditando l’abbandono della spedizione.

Lascio passare alcuni minuti e l’effetto della sosta e riparto facendomi vedere assolutamente risoluto: oggi il pilastro nord est della Creta Forata non ci scappa! Ci avviamo così verso il “temibile” nevaio, in effetti ancora pingue essendo metà giugno. Risaliamo un ripido prato e approdiamo sulla banca inclinata della cengia che cinge la base della nord di Creta Forata. Emiliano segue silenzioso e pronto a captare segnali negativi. O forse, in realtà, è pronto a coglierne altri, di segnali.

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Mi fermo ad aspettarlo e alzo gli occhi alla bella parete sopra di me. Però, mi dico, verticale! E pare anche una roccia compatta ma ben lavorata (nb: quando giri in Carnia e vedi una cosa del genere non puoi che rimane estasiato o altrimenti insospettito. Uno perché le due cose insieme difficilmente si trovano nello stesso posto. Due, perché sarà impossibile che nessuno l’abbia notata, sicuramente avrà difficoltà orrende!).

“Qui sì, che varrebbe la pena aprire una via” urlo a Emi sperando di motivarlo “…magari con qualche spit…” aggiungo. Per quanto l’occhio cerchi sempre le linee naturali, ammetto che riuscire a immaginare protezioni sulla lavagna che avevo sopra la testa rimaneva cosa alquanto difficile. La parete si innalzava prima leggermente appoggiata, a rigolette e gocce e poi verticalissima, tanto da non riuscire a vedere la sommità.

Emiliano osserva serio e mi dice “Te sa che te ga ragion”

Contento di non aver detto una cazzata mi riavvio deciso al nostro attacco. Certo non è oggi il giorno per aprire una via e sarà come tante altre cose dette negli anni. Almeno per me.

Due anni dopo quella giornata piena di dubbi, ma conclusa con una rivelazione, su quella parete che non è in fondo che un semplice zoccolo si sarebbero contate ben 5 vie sportive, sulla roccia forse più bella che si possa trovare nel sappadino. E’ così che è nata l’area detta “pilastro della cooperativa”, terreno di caccia di Emiliano e della compagnia monfalconese dove hanno potuto sbizzarrirsi a cercare ogni tipo di linee di scalata, quasi fossero bambini in gelateria. Una roccia monolitica, verticale ma finemente lavorata dallo stillicidio dell’acqua, regala un vero piacere per le dita e i movimenti del corpo. La “cooperativa del foro” è il nome di quella prima via aperta nel 2013, emblema del lavoro di una intera squadra di apritori, una “cooperativa” appunto. E che, soprattutto, quando si mette in testa un progetto lo realizza. E con molta decisione. Conosco poche persone così determinate e meticolose come Emiliano: il lavoro minuzioso di ricerca e correzione fatto sulle guide è lo stesso che si rispecchia nell’apertura dei suoi itinerari sportivi. Che ormai sono diventati popolari e apprezzati specie dagli scalatori “medi” in cerca di giornate di divertimento e di piacere della scalata. Con le vie gemelle della Cooperativa (Naty per scalare, Ucelo de foc, il Valzer dello strangolino, tutte con difficoltà obbligatorie intorno al 6a) cui si è aggiunta la firma autorevole di Mauro Florit su una via di difficoltà e ingaggio superiore (Forever, la più difficile della parete con difficoltà fino al 6c+), questo “zoccolo” all’apparenza insignificante ha trovato una sua dimensione autonoma e oggi certamente una meta amata da scalatori sportivi. Il tutto immerso nell’idillio del vallone di Creta Forata.

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Ecco quindi come nasce una via. Un po’per caso, un po’per predisposizione e un po’grazie alla conoscenza dei luoghi e la voglia di esplorare anche quelli che paiono scontati, dietro l’angolo e sotto gli occhi di tutti. Basta, appunto saper guardare. Anche nelle giornate storte.

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Ps. Forse vi sarete chiesti come è andata poi quella giornata? Forse ri-motivato dal progetto della nuova via e di quella terra promessa di buchi, gocce e rigole su cui si sarebbe sbizzarrito da lì a poco, Emiliano mi seguì lungo il temibile “nevaiotiponorddelleiger” sul quale ho sfoggiato un pleonastico “fungo di neve” per far sicura (e dare la sensazione di aver tutto sotto controllo). Il resto della giornata passò scoprendo metro a metro l’affascinante pilastro nord est lungo la “un tempo classica” Pachner, che in Carnia spesso vuol dire “un chiodo ogni tanto”. Vie dal sapore d’altri tempi, dove il cercare assume un valore in sé, ripagato da un ambiente al tempo stesso severo ma arioso. E una roccia nient’affatto spregevole. Salvo quando poi si decide di slegarsi sulle classiche “facili roccette sommitali” e provare a bombardarsi a vicenda di macigni. Altre storie, per altre vie.