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Ho saputo della tua metastasi, del tentativo di trapianto di midollo, della tua battaglia e la  tua morte. Sei stato mio collega nel mio primo lavoro durato meno di un anno, coinciso col mio ictus, il lavoro che ho prontamente perso dopo che era chiaro che sarei stata disabile per sempre.

Non avevo instaurato con te un rapporto particolare, un po’ perché lavoravi dalla sede di Firenze e lì vivevi mentre io ero a Genova dove vivo ancora. Ti ho visto nei nostri uffici qualche volta quando volevi parlare con l’amministratore delegato di cui avresti voluto essere il delfino anche  se senza molto successo perché gareggiavi con un altro collega molto più astuto e accanito di te. Eri un commerciale abbastanza in gamba. Condividemmo le mie prime trasferte. Anche se mi lasciavi da sola a parlare con i clienti, io con pochissima esperienza ma  sicuramente molto volenterosa facevo spesso il tuo lavoro al posto tuo. Eri schivo e approfittavi della mia disponibilità. Non facemmo mai dei discorsi insieme né tanto meno una cena insieme. Mi stavi decisamente antipatico. Eri antipatico, insofferente, il tuo lavoro di commerciale ti lasciava poco tempo per la famiglia e la tua famiglia, tua moglie e i due figli ancora bambini soffrivano di questo. Facevi lunghe telefonate con loro e ti isolavi per parlare con loro.Forse per questo eri scostante e cercavi di lavorare meno lasciando a me le tue incombenze. Io ti giustivicavo per questo anche se ora capisco che non avrei dovuto. Insomma non fu una bella esperienza lavorare con te, piuttosto una gran fatica. Eri uno stronzo.  Ebbi un ictus finii in coma e rimasi in ospedale per mesi soffrendo di una forzata clausura con la  paura e tristezza del futuro inevitabile di disabile che mi attendeva. Non mi venisti mai a trovare, non mi telefonasti neppure una volta, mi mandasti i saluti per conto di altri colleghi.

Mi dispiace, ma questo è il ricordo che mi hai lasciato di te e voglio essere sincera anche se questo articolo di commiato non è commovente né lascia di te una bella immagine. La tua morte però mi lascia l’amaro in bocca. Con te se ne va un pezzetto del mio passato, quello della giovane ragazza normodotata che aveva successo in tutto ciò che faceva, che lasciava gli altri a bocca aperta perché bella, professionale e preparata. Un passato anche un po’ infelice nonostante questo, che da lato rimpiango e dall’ altro sono soddisfatta di aver abbandonato. Ma lascia amarezza vedere che si sta frantumando, pezzetti che mai più si potranno rimettere a posto per poterlo anche se nella fantasia riviverlo.

Tu eri uno di questi frammenti. Penso alla  paura che devi aver provato prendendo consapevolezza del tuo destino e del fatto che avresti abbandonato ciò che avevi, amavi e sognavi.

Perciò ciao Giorgio, ci rincontreremo e mi aspetto che almeno mi paghi una cena per aver fatto il lavoro al posto tuo e non avermi mai aspettato con la macchina.

La tua foto che ti rispecchia, vanitoso e con quell’ aria professionale che mi provoca ancora antipatia. Sorrido a guardarla, è l’unica foto che hai messo sui social che non era nella tua personalità frequentare ovviamente. Ciao, mando questo sorriso fino da te.

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Da due o tre anni è stata aperta una lavanderia sotto casa. Appena aperto c’era un cartello con scritto a caratteri cubitali consegna e ritiro gratuiti. “Meraviglioso” penso.Per me la lavanderia è un cruccio perché non riesco a portare da sola i capi in lavanderia e una lavanderia che ritira a domicilio i capi d’abbigliamento e una volta pronti  li consegna a domicilio per me è al pari di un miracolo. La provo, vedo che lavorano bene, il proprietario è un ragazzo abbastanza giovane e gentilissimo e i prezzi sono onesti. Per due anni usufruisco di questo servizio felice che funzioni bene. Quest’anno verso giugno chiamo la lavanderia e chiedo il ritiro di ben 8 capi a domicilio, il ragazzo che deve solo fare 100 metri per arrivare a casa mia mi dice “vengo subito a ritirarli”. Consegno allora i capi e mi dimentico di chiedere la ricevuta ( grave errore) che lui non mi fa. Passano i mesi, nessun avviso. devo partire per le vacanze verso luglio-agosto allora lo avverto per dire che se la mia roba fosse stata pronta io non sarei stata a casa.

Sempre molto gentilmente il ragazzo mi spiega che non è un problema perché sarebbe stato chiuso due settimane ad agosto e comunque mi avrebbe chiamato quando il tutto sarebbe stato pronto. Nessuna  chiamata.

Arrivo alla fine di settembre e comincio a preoccuparmi,  passo con mio marito davanti al negozio e vedo la serranda chiusa. Dopo qualche giorno ripassando davanti al negozio trovo un foglietto con scritto che l’attività stava chiudendo e solo in determinati giorni il negozio sarebbe stato aperto (tre giorni a settimana al mattino). Chiedo alla signora che mi aiuta in alcune commissioni e tiene  pulita la casa di andare nei giorni disponibili a riprendere le cose ( temendo di non trovare più il negozio aperto).

Il ragazzo non consegna gli indumenti alla signora perché “lui consegna solo ai proprietari, i capi erano pronti e mercoledì potevano essere ritirati”

Lo chiamo per chiarire questo fatto. Io sono disabile e dato l’orario di apertura mio marito per causa del lavoro non può andare.

Non risponde.

Mando un messaggio WhatsApp.

Mi richiama. Bene, posso spiegare a voce di nuovo. Allora il tono della voce di questo personaggio cambia, non è gentile, urla , non mi lascia parlare accusandomi però a sua volta che io non lo lascio a parlare.

” mercoledì la signora che mi aiuta verrà a ritirare i capi e  ripeto che sono disabile e non posso fare a meno di chiedere a lei e che al massimo posso scrivere una delega.

“i capi non ci sono tutti abbiamo un negozio in centro città, eventualmente può venire a prenderli lì”

” ma come la roba non è pronta, come faccio a venire in un altro negozio così lontano?” Dico. ( Vivo fuori città) e ripeto che sono disabile  e per me è un disagio.

“lei non mi fa finire di parlare!” Urla

A questo punto la telefonata è diventata al pari di un programma televisivo di bassissimo livello a chi urla per primo. Io ho paura di una crisi epilettica.Chiudo la telefonata.

Speriamo di non perdere i miei vestiti.

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Luci bianche, odore di disinfettante e sudore, bip costanti, l’ aria e’ rarefatta, ho aperto gli occhi ma in realtà non so, li avevo chiusi prima? Non capisco, mi rivolgo alle prime persone che vedo.

” mamma…cosa è successo?”

” hai avuto un’ emorragia cerebrale”

” cosa??? E perché?”

” una fragilità capillare”

una fragilità capillare??”

” papà…non mi sento”

” sei paralizzata”

” paralizzata? No qualcosa muovo, vedi?”

” solo il braccio sinistro e la gamba sinistra sono paralizzati”

” i capelli…cosa è successo ai miei capelli?”

” non toccarti, sei ancora fasciata, hai i tubi dell’ alimentazione non toccarti!”

Non mi posso toccare.

Ho tubi dappertutto, sento il fastidio del catetere, la flebo e l’ago che punge, ho una sacca con un liquido giallastro sopra a me, è collegata a me con un altro tubo infilato nel collo, mi tira un po’ e pesa, credo che quella sia l’ alimentazione forzata. Ho tanta sete.

Ma comunque dove sono i miei capelli? Alzo leggermente la mano destra anche se non posso e sento una peluria morbida. Sono rasata! Mi hanno rasato! Dio mio ma cosa è successo? “Come farò, cosa succederà ora?” Penso.

Forse mia madre mi legge nel pensiero e mi dice:

“guarda lascia stare, eri una figlia perfetta!”

Ero una figlia.

Perfetta.

Passano le ore, i giorni, interminabili, mi cambiano le flebo, mi tolgono la sacca, mi imboccano, non posso bere, mi danno un surrogato dell’ acqua, mi lavano con delle salviette, ogni tanto cambio il pigiama, mi sento appiccicosa, una persona a metà, mi sento ma non mi sento.

” ti portano a in un istituto devi fare riabilitazione” dice mia madre.

” non è qui io e la mamma dovremo fare avanti e indietro, ci costerà” dice mio padre.

Costerà:

Soldi?

Fatica?

Paura?

A chi: a me o a loro? Quanto a me e quanto a loro?

” è un problema di soldi, non abbiamo più soldi?” Ma la mamma lavora, tu hai la tua pensione… l’assicurazione…” Dico io.

” no abbiamo i soldi ma non dovremmo spenderli se tu non fossi… così!” Dice mio padre.

Io:” ho risparmiato mille euro l’anno scorso puoi prenderli”

Mio padre: “no non mi servono.”

Non sono “una figlia”, sono “tua figlia”.

Non sono “perfetta”, dovrei solo essere “amata”.

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Mi spostano in un centro riabilitativo, mi dicono anche dove sarà.
Piango. “ Cos’altro mi attende?”
Qualcuno mi vede, un infermiere, OSS, non so, non si distinguono, non si presentano, si avvicina e mi dice:
“perchè piangi? Non piangere!”. Sembra non si possa piangere qui. Non ho voglia di dare spiegazioni, tanto non capiscono, non mi sentono. Dicono sempre di no.
Arriva un medico. “La ragazza piange” gli dicono. Il medico risponde “ci sta, è la paura di lasciare un posto che conosce ed andare verso un qualcosa che non sa cosa sarà.”
Arrivano i portantini, finalmente rivedo la luce del sole e sento l’aria fresca sulla pelle dopo un mese a letto in una stanza. Un portantino mi riconosce: “ lei abita sopra al mio negozio, sono il proprietario del frutta e verdura”. E’ vero, lo riconosco anche io.
Faccio un viaggio, cerco di guardare il più possibile il cielo, è da un mese che non lo vedo.
Arrivo, credo, a destinazione, l’ambulanza si ferma, i portantini mi fanno scendere, nessuno mi dice nulla neppure “siamo arrivati”. Lo deduco.
Arrivo in un posto ovattato con grossi quadri alla parete con schizzi di colore rosso. Non riesco a guardarli mi ricordano il sangue, distolgo lo sguardo. Qualcuno si avvicina e mi chiede: “sai dove sei?” , “Sì, gli rispondo, all’ospedale xxx”, “ No! siamo alla “xxx”. “In ospedale mi avevano detto diversamente.” “Intanto dicono sempre no, inutile quasi rispondere” penso. (in seguito scoprii che mi avevano detto il nome dell’ospedale cui apparteneva il centro riabilitativo, in pratica era la stessa cosa, la mia risposta era giusta).
Mi spostano su una sedia a rotelle, finalmente sono seduta! Sono emozionata. Mi spostano in una stanza, uno studio medico, forse, parlerò con un medico,credo, non dicono mai nulla, non so dove andrò, chi incontrerò.
Trovo una dottoressa che mi spiega essere il primario, vicino a lei c’è un’altra dottoressa più giovane. Mi spiegano cosa avrei fatto, fisioterapia, logopedia, terapia occupazionale e a fianco a me ci sarebbe stato uno psicologo. Era interessante, finalmente uscivo dal torpore, avrei incontrato dei terapeuti, avrei fatto qualcosa con loro. A mano a mano che li incontro mi spiegano cosa avrei fatto, sono un po’ confusa in realtà, mi hanno dato molte informazioni che cerco di metabolizzare. Quello che ho capito è che avrei piano piano cominciato a bere acqua, quella vera e non l’acqua gel, sarei stata su una carrozzina e non a letto e avrei avuto accesso al bagno, non avrei più avuto cateteri.
Un barlume di speranza.
Ma non fu così facile. C’erano meno “no” alle mie richieste e la situazione era più chiara.
Mi accoglie il primo terapista, il logopedista, “disegnami l’orologio” mi dice. Comincio a disegnare il quadrante ma i numeri si confondono nella mia testa, c’era un 9, poi un 15, no un 3, un 6 o forse 30? Mi accorgo che non è facile, non lo è per niente. E lo stesso per gli altri test che seguono. Non mi ricordo le cose più semplici, è tutto confuso, come se il mondo in cui ero vissuta si fosse aggrovigliato su se stesso per poi esplodere in mille pezzettini che vagavano senza meta e senza ordine nella mia testa.
Piano piano si presentano gli altri. Il fisioterapista è giovane, ha 7-8 anni più di me, fa delle prove, di alcune mi spavento: mi tocca la pianta del piede ed io non ho reazioni, mi chiede di piegare il ginocchio e far scivolare il piede sul lettino fino a distendere la gamba e non riesco, mi muove il braccio ed io sento male. Non riesco a fare un quarto di quello che mi dice. Mi guardo intorno, sono spaesata, la mia fisicità è “appannata”.
Non mi sento, non mi “trovo”. Non so dove sono anche se sono consapevole di dove sono. Sono in un locale che sembra una palestra e sono seduta su un lettino, ma non mi sento seduta su un lettino.

La realtà è evanescente.

Provo mille sensazioni, non riesco a ordinarle, è come sapere di esserci ma sentire di non esserci. Solo dalle voci capisco che ci sono altre persone attorno a me. Così giro la testa, non le vedo, le cerco con lo sguardo, qualcuna riesco ad individuarla, si presentano, sono cordiali. Mi sforzo di essere gentile e di prestare attenzione ad ognuno di loro ma non è facile, a volte riesco altre no, non li riesco a vedere bene, così alle volte sfuggo al loro sguardo. Sento tanto il bisogno di parlare con qualcuno che conosco. Mi sistemo in camera, prendo il telefono e chiamo il mio ragazzo, ho bisogno di rientrare in una comfort zone.
Arriva la dottoressa più giovane “Cosa fai?” mi chiede. “chiamo il mio ragazzo”. “Da quanto tempo sei al telefono?”. “Aveva appena risposto.” “ Non devi usare il telefono” mi dice. E’ il filo che mi tiene legata alla vita, a quella vera, sentire voci conosciute, parlare con loro, mi fa sentire meno sola e meno spaesata, perchè so che fuori c’è qualcosa, c’è la vita vera.
Vorrei tanto farmi una doccia calda, vorrei fare una passeggiata, dalla mia camera non vedo cosa c’è fuori, i vetri sono oscurati. Sono oscuranti come i miei sensi. C’è il divieto di andare perfino nell’atrio. Dicono che potrebbe darmi tropi stimoli. Ma ho bisogno di respirare.
I giorni passano, ma il tempo non ha misura, le giornate sono scandite dal ritmo delle terapie ed i pasti.
I pasti sono una delle scoperte più faticose da accettare. Non posso mangiare consistenze miste, ma posso bere, c’è carne, pesce, verdura, formaggio, va bene. La prima volta c’è il logopedista affianco a me, mi guarda mangiare. Non me ne accorgo ma del cibo sta scendendo da un lato della bocca. Me lo fa notare. “Non l’ho sentito” dico io. “Devi farci caso” dice ed aggiunge “ hai visto che hai mangiato solo un lato di quello che avevi nel piatto?”. No non me ne ero accorta, non mi ero accorta di nulla. Non sapevo più mangiare. Smisi di avere voglia di mangiare. Continuavo a pensare: “ed ora quale altra novità scoprirò?”. Non lo sapevo, ma avrei scoperto che, mentre la sensazione di stare in piedi non si dimentica, ma è comoda, è naturale, ci si dimentica come si cammina. Dopo mesi mi trovai in piedi senza la più pallida idea di come cominciare a camminare. Mi sentivo fluttuare in aria, come se non avessi il pavimento sotto ai piedi. Scoprii quasi subito di avere un ipertono pazzesco, per cui non solo fluttuavo in aria ma all’improvviso  il piede si contraeva in una smorfia quasi burlesca e io cedevo su me stessa e quel poco che potevo sentire scompariva subito. Mi misero un tutore. “Prova a sfiorare il muro con la mano destra”. Sì così era più facile, non fluttuavo più mi sentivo più ancorata a terra, insomma mi “sentivo”. Avere qualcosa a destra è il mio modo di camminare.
La terapia occupazionale è il mio momento di svago. Scopro qualcosa di più lì, però, mentre mi rilasso a dipingere e simili. Vediamo un film poi faremo qualcosa anche su quello. Film appena uscito, “twilight”. Le immagini e le scene sono abbastanza chiare, le vedo bene ma non riesco a seguire la storia. I personaggi sono senza nome perchè non lo ricordo, quando succede qualcosa lo capisco ma poi lo dimentico.
Quei mesi passarono così. Sapevo dove mi portavano per le varie terapie ma non ricordavo assolutamente il percorso che facevo per arrivarci.
L’emiplegia è parte di me e questo è un lavoro di accettazione e consapevolezza ma divora senza pietà una parte di me: vista, tatto, lucidità, presenza fisica e mentale.

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Torno sull’articolo precedente, perché secondo me l’ ultima frase che ho citato è la più offensiva. E non l’ho commentata.

Premessa: alla fine del periodo di prova (attenzione: non all’ inizio) mi fu dato un libro da leggere su quello di cui si occupava il mio gruppo, che non sapevo da dove era stato preso.

Finisco di leggerlo e avverto il mio capo. Dopo questo periodo di prova ero stata spostata in un altro ufficio che si occupava di tutt’altro.

Il nuovo ufficio era anche in un altro piano dell’ edificio.

Avviso il mio ex capo che sarei andata a restituire il libro alle 17:30. Le dico anche che non sapendo dove metterlo a posto lo avrei lasciato a uno del gruppo.

Vado quindi nel piano del mio ex ufficio e non trovo nessuno. Me ne torno a casa con il libro ed il mattino dopo scrivo una mail al  mio ex capo spiegando che non avendo trovato nessuno e non sapendo dove riporlo,  il libro era ancora in mano mia e che lo avrei riportato ma se mi assicurava che qualcuno fosse presente.

Il mio ex capo mi dice che invece avrebbe mandato una collega a prenderlo alla mia nuova scrivania.

Questo il testo della mail che ho ricevuto da questa collega:

“Comunque una volta al piano, ma vale in generale e non solo per il libro, puoi sempre chiedere ad un collega presente che sicuramente ti saprà aiutare.

Nonostante tutto e nonostante siamo in ufficio per lavorare e la nostra azienda sia tutt’altro che una onlus, in genere cerchiamo di aiutarci uno con l’altro.


Buon lavoro”

D.

Evidentemente il mio ex capo aveva trascurato di dire che avevo avvertito che sarei andata a consegnare il libro e che non c’era nessuno a cui darlo.

Comunque l’ affermazione ” la nostra azienda sia tutt’altro che una onlus” la dice lunga…

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Sono ancora confusa, sono disorientata, mi dicono che mi sono svegliata dal coma, io non riesco a realizzare, mi sento come in un sogno. I suoni sono ovattati, gli unici che riesco a distinguere sono i bip che suonano a intervalli regolari degli apparecchi che credo stiano monitorando… parametri? Quali? I miei?

Una cosa ricordo bene, continua a tornarmi in mente e lo chiedo di continuo a tutti quelli che mi stanno attorno: “Marco, chiama Marco”. Mio padre, credo, mi dice ” chi è Marco?” E io ripeto ” chiama Marco!!”. Non so cosa succede, nessuno mi dice niente, stanno a guardarmi, ho smesso di chiedere, tanto non rispondono. Mi sento circondata da dei pupazzi animati. ” Ciao” sento alla mia destra, mi giro, la flebo dondola. È Marco. Si avvicina un secondo verso di me perché io gli dico, ma ho solo un filo di voce, ” Marco…”. Lui non mi risponde, mi guarda per un attimo e poi distoglie lo sguardo.

” non so cosa…hai visto cosa mi è successo? Tu sai perché? Perché a me?” Gli dico. Marco non risponde, io invece raccolgo il mio filo di voce ” ricominciamo, ricominciamo insieme. Non so cosa…ma ricominciamo senza errori, sarà come vorremo, Marco” gli dico e penso “ormai io non ho paura”.

” Ema non contare su di me perché io non posso aiutarti” escono parole dalla sua bocca, è in piedi e mi guarda, gli occhi non sono spaventati, non sono tristi, non sono vuoti, sono crudeli e sono lontani. Vedo che sto uscendo da lui, vedo la mia immagine staccarsi da lui. Non sono più parte di lui, non sono più nei suoi pensieri, mi ha scacciato via, mi ha scacciato via come si fa con una mosca.

Io non ho paura, tu sì.

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Sono disorientata, mi sono trovata in un letto di ospedale, l’ultimo ricordo che ho è casa mia.

sono confusa, diversi Medici girano intorno a me e mi dicono cose diverse. vedo molte facce, alcune le riconosco altre non capisco perché siano venute da me, è da molto tempo che non le vedo ma tutti mi sorridono e sembrano felici di vedermi. io non capisco, cosa è successo?

Il letto è scomodo, ho un catetere addosso, ho tanta sete e chiedo l’acqua ma non me la danno. Mi danno l’acqua gel. non so cosa sia, sembra una gelatina ma mi dicono che è come l’acqua. Io ho tanta sete e l’acqua gel non mi basta per dissetarmi.

Parlo a fatica e ho ricordi confusi. chiedo dei chiarimenti per capire cosa è successo ma mi danno delle strane risposte che non capisco.

sono attaccata ad una flebo e mi fa male il braccio perché l’ago mi punge. Non sento più l’altro braccio e non sento tanto anche la mia gamba. non posso aiutarmi con entrambe le mani. Una funziona l’altra non capisco, ma non riesco a usarla.

Allora piango,questa situazione è insopportabile!

“Perché piangi? Non piangere!” Questo mi dice chi mi vede piangere. Mi rimproverano e aggiungono

“Ci siamo noi ad aiutarti, dai su’!” Ma Perché devo essere aiutata? Passano credo dei giorni, il tempo non ha misura qui.

” Posso scendere un pochino dal letto?”

“no! Noi queste cose qui non le facciamo!” Mi risponde credo un’ infermiera.

” Vorrei andare in bagno”

“no! tu non senti lo stimolo della pipì” ” sì sento che devo andare in bagno…”

” qui il bagno non c’è!” ” io veramente ho sentito uno sciacquone prima”.

Questo è un risveglio dal coma, questa è la realtà dopo un’ operazione come la mia, una craniotomia, un’ embolizzazione ed un drenaggio.

Non c’è bisogno di molto devo solo riposare e tranquillizzarmi, ho bisogno di risposte chiare, posso affrontare la realtà, ne ho bisogno, devo sapere qual è la realtà, cosa è successo, dare risposta ai miei perché.non ditemi sempre di no.

Trattatemi con gentilezza, per favore.

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emaki81

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